Numero 2/2013
Tutti i colori del mondo
DI GIOVANNI MONTANARO
Feltrinelli editore, 2012
Barbara Ciccone*
“Tutti i colori del mondo” è il romanzo di Giovanni Montanaro, finalista al Premio Campiello 2012.
Una lettura reichiana dell’opera non può prescindere dall’intenso fotogramma biografico raccontato mirabilmente in questo romanzo, che esordisce con la nascita della protagonista e narratrice, Teresa Senzasogni.
E così, mentre la vecchia partoriva, il vento faceva troppo rumore; tutto si mischiava, si confondeva, l’aria rovesciava semi e terra, come ogni cosa, a Gheel, era sempre stata rovesciata, come tutto si è rovesciato anche nella pancia della matta; la creatura scalciava, si agitava, voleva uscire, voleva venire al mondo. (pag.16)
Siamo a Gheel (Giallo), un paese fiammingo, realmente esistente nella sua particolarità di essere già dal XIII secolo la più grande comunità psichiatrica terapeutica aperta del mondo. Questa cittadina nasce, infatti, vicino al Santuario di Santa Dimfna, in memoria di un’adolescente fuggita dalle braccia del padre, nobile irlandese accecato dal dolore per la morte della bellissima moglie, che desidera congiungersi carnalmente alla figlia, la quale crescendo ne è diventata la copia perfetta.
La principessa Dimfna pur di non consumare quest'assurdo incesto, grazie all’aiuto di un prete, lascia l'Irlanda e si rifugia a Gheel dove però viene scovata dal padre e brutalmente uccisa.
Da allora diviene, per tutti i Cristiani, la Protettrice dei Matti.
Gheel è il paese dei matti che, grazie a incentivi e sussidi statali, vivono nelle famiglie adottive locali, integrati nel tessuto cittadino, inseriti nella vita della comunità e partecipi delle sue vicissitudini.
Gheel è una specie di comunità nella comunità dove la diversità viene accolta, tollerata, sostenuta.
A Gheel ogni famiglia ha il suo matto, finisce per affezionarglisi; per tutti è una cosa naturale, una cosa divina. Ci sono quelli che lavorano nei campi, quelli che dipingono, quelli che fanno i giardinieri e quelli che non fanno niente, quelli che sono pericolosi, e sono chiamati innocenti, e quelli che sono rinsaviti, i pochi che si suicidano come Frank e gli ancor meno che hanno figli, come la vecchia Senzasogni, i pochi che hanno ferito e ucciso qualcuno e i tanti che hanno impedito che accadesse più spesso, e ci sono quelli buoni e quelli cattivi, quelli permalosi e quelli piagnucolosi, quelli generosi e quelli molto avidi, quelli di compagnia e quelli che disturbano, quelli che tirano sassi ai gatti e quelli che curano gli ammalati; ma solo perché sono uomini come tutti gli altri, signor Van Gogh. (pag. 72)
Teresa Senzasogni è la figlia di una matta del paese, residua del manicomio Salpêtrière, mandata a Gheel dopo essere rimasta senza parenti prossimi, che non trova pace e conforto nella cittadina per il suo dolore e ne diviene la triste e solitaria Presenza.
La vecchia Senzasogni ha oltre quarant’anni quando scopre di essere incinta, a nulla vale il tentativo di aborto, dietro gli occhi spenti, le frasi sconnesse e i capelli indiavolati, c’era ancora quel tanto di anima che le bastava per capire l’amore, e la vita che le cresceva addosso. (pag.15)
La vecchia muore dando alla luce Teresa Senzasogni, la protagonista di questo romanzo epistolare, che il parroco di Gheel considera una nascita speciale viste le condizioni della madre e il parto prematuro, non capiva bene cosa fosse ma c’era qualcosa in me, qualcosa che mi rendeva straordinaria. Non ho niente di speciale in realtà: sono soltanto l’ennesimo miracolo che non è accaduto a Gheel. (pag.18)
Alla nascita Teresa viene svezzata in canonica e poi data in affidamento alla famiglia De Goos, fattori che vivono in campagna con un minatore di nome Icarus a pensione da loro.
Teresa Senzasogni cresce libera, serena: è intelligente, acuta, sveglia, solerte, educata e rispettosa delle regole della famiglia di cui diviene membro legittimo.
Teresa è la tabula rasa di questo romanzo, personaggio trasparente e nitido che, attraverso la semplicità e l’umanità imprintate nelle sue parole, disvela la sua autenticità e il suo dramma. Vedete anche io ho la mia gomma pane, e anche lei ha cancellato tante di queste parole che ho già scritto di fretta, perché le rileggo e certe volte mi sembrano quelle giuste, ma poi suonano vaghe imprecise; sono quasi quello che sento davvero, ci confinano, sono più o meno quello che voglio dire, ma non esattamente. Certe volte ci accadono cose troppo grandi che non stanno dentro le parole, che spandono dappertutto come una fontana che versa in un secchio già pieno. (pag.63)
“Tutti i colori del mondo” è anche e soprattutto un romanzo di denunce come quello dei diritti violati dei minatori delle Campine, di cui il giovane Icarus rappresenta strenuamente le difese, caparbio e perseverante.
Ben presto egli diventa la figura dell’eroe mitico e il sogno d’amore di Teresa, ancora bambina, ma ostinata a perseguire con la sua condotta il diritto a una dote e ad un matrimonio felice.
Teresa Senzasogni è terribilmente vera e semplice e al contempo straordinariamente eccezionale nell’intensità energetica vitale e nella capacità di sentire oltre soglia, da divenire a tratti anche una leggenda nel paese di Gheel, dopo aver profeticamente annunciato, in seguito a una visione onirica, l’imminente crollo della miniera salvando tutti i lavoratori.
La stessa dolce Teresa che accompagna affettuosamente i matti in Chiesa nell’attesa dei miracoli di Santa Dimfna, consapevole e lucida, al di là di ogni dono di chiaroveggenza, dei limiti di ognuno di loro, del destino tragico, dell’irreversibilità delle sorti. Lo vedo ancora quel corteo. Quell’insieme di sguardi vuoti, persi o arrabbiati; chi si tiene in piedi e chi si alza fiero, chi si aggrappa a un altro e chi spinge, chi fa lo sgambetto, chi borbotta preghiere e chi in chiesa non si inginocchierà, perché non chiede un miracolo ma un risarcimento... (pag.72)
Quando i De Goos muoiono, Icarus diviene reggente della fattoria e Teresa, ancora ragazzina, viene mandata dal prete e dal vicario medico della città a risiedere presso la ricca famiglia Vanheim, dove viene registrata come matta per il solo fine della riscossione del sussidio, necessario alla creazione della sua dote. Un mezzo innocuo, strategico, opportunamente mistificato tra le consuetudini di Gheel, per rendere a Teresa la possibilità di una vita normale a discapito della sua origine.
Ma una sera, a casa dei Vanheim, in pieni rituali di festeggiamenti come uso della cittadina, per l’accoglienza di un nuovo matto in arrivo con la diligenza, Teresa incontra Van Gogh e, in una modalità egualmente onirica, conosce l’uomo che le cambia la vita!
Van Gogh è una sorta di vagabondo arrivato casualmente a Gheel attraverso le Campine, attirato dalle luci e dai fasti di casa Vanheim, viene scorto come un’ombra da Teresa attraverso il vetro della finestra, poi accolto e curato in casa in pieno stato di depauperamento fisico e psichico, tanto da essere scambiato per il nuovo matto.
Vincent Van Gogh ha 27 anni, ha vagabondato, è stato predicatore, bracciante, sostenitore dei minatori, perennemente in cerca della sua vocazione, inquieto, incapace di trovare una identità all’interno della famiglia di pastori e mercanti di arte, legato esclusivamente al fratello Theo al quale scrive: c’è anche un altro tipo di fannullone, il fannullone che non vorrebbe esserlo, che è divorato da un gran desiderio di azione, che non fa niente perché non può far niente, perchè gli manca quel che serve per produrre, perché è imprigionato in qualcosa, per la fatalità delle circostanze. Ecco, io sono uno di questi. Così, vorrei che questo fosse per me il tempo della muta, il tempo in cui gli uccelli cambiano le piume, il tempo- per noi esseri umani- delle avversità e della sfortuna. Si può restare sempre in questo stato, ma se ne può anche uscire rinnovati… (pagg.67-68)
Teresa Senzasogni riconosce Vincent tra mille, forestiero ospite che alberga casa Vanheim, e lo scorta in una condivisione intrisa di quotidianità e reciprocità attraverso le Campine e attraverso il suo Sé, sino ad arrivare alla brillante intuizione di condurlo oltre gli schizzi monocromatici.
Poi avete visto che non bastava, eravate solo alla sorgente di un fiume che doveva scendere, sfociare, un fiume di fango e luce, perché quei colori volevano unirsi, finire l’uno nell’altro, scambiarsi di posto, scontrarsi, chiedevano di essere ancora più spessi, di uscire dalla tela, vi stavano travolgendo, vi stavano trascinando con la loro corrente… (pag.83)
Van Gogh scopre irruentemente e dolorosamente il colore come possibilità espressiva della propria interiorità artistica e, a discapito di ogni forma di protezione e controllo di Teresa, fugge da Gheel.
Teresa ama Vincent e si avvilisce per la sua perdita, ma Montanaro fa in modo che le loro vite si intreccino inevitabilmente e indissolubilmente in questo romanzo, per l’eternità.
In paese arriva il dott. Tarascon che cataloga nosograficamente i matti iscritti al registro. Arrivato il turno di Teresa, immemore della sua stigmate di pazza, l’unica diagnosi possibile sembra riconducibile ai comportamenti manifesti della giovane dopo l’improvvisa partenza di Vincent: malinconia, chiusura in se stessa, ma soprattutto, il timore della Sig.ra Vanheim che quella inquietudine derivasse da un presunto atto amoroso consumato tra la braccia dello sconosciuto ragazzo più grande di lei e per giunta sparito dal paese di Gheel.
Teresa è vergine, ma ha una geografia anatomica contraddittoria diametralmente opposta all’Io strutturato che la caratterizza e, in una ennesima sovversione prospettica di questo romanzo, diviene una presenza ambigua e un caso straordinario.
Teresa Senzasogni diventa Thierry alla mercé dell’illuminismo tetro e del positivismo criminale del luminare parigino della clinica Bicêtre: torturata, defraudata, abbrutita, straziata nell’anima come nella carne.
Sarà nel manicomio degli incurabili a Saint-Rémy che ricorda di essere Teresa, la ragazzina che decide di scrivere a quel signor Van Gogh che aveva incontrato anni prima, in un oscuro paesino fiammingo in cui non esistono i manicomi.
A Saint-Rémy Teresa rivede Vincent e le sue tele, tutti i colori del mondo, tutte le sfumature dell’anima e le forme dell’Universo.
Teresa e Vincent si ricongiungono nel sotteso epilogo straziante della morte, che libera da un mondo inadeguato e incapace di comprendere e restituire dignità.
La prosa di Montanaro è semplice, scarna e tiene il lettore avvinto e sospeso in una narrazione delicata; la scena è cruda, vera e terribilmente intensa, tanto da scemare a tratti in una fisiologica ovvietà, quasi a silenziarsi gradualmente come in una nenia.
Giallo, Giallo non lo so
Se mai più ti rivedrò
Ma se non ritornerò
Non ti scorderò. (pag.131)