Numero 2/2013
TRATTAMENTO DEL TRAUMA:
UN PUNTO DI VISTA NEUROFISIOLOGICO
(Seconda parte)
Maurizio Stupiggia*
Veronica era venuta in terapia per un annoso problema all’anca, un dolore quasi costante che a volte si acutizzava, che non le permetteva di muoversi normalmente e che le rendeva difficile lo stare sdraiata. La sua vita stava diventando sempre più condizionata da quel disagio, e nonostante avesse già consultato vari specialisti, non ne era ancora venuta a capo. Dopo molti tentativi di lenire il dolore con vari tipi di farmaci, l’ultima soluzione prospettatale era un intervento chirurgico: era per evitare questa possibilità che Veronica mi aveva contattato.
Osservando Veronica nel suo modo di stare e di muoversi, notavo come lei non stesse mai ferma; sembrava che qualsiasi posizione le potesse procurare dolore e che solo il continuo ed ininterrotto movimento la tranquillizzasse. Era come un gatto sull’acqua.
Lavorammo per un po’ di tempo, cercando insieme di dare un contesto significativo a quel dolore, ed emerse, durante una seduta, un rapido ed improvviso accenno ad un abuso sessuale patito nell’infanzia ad opera del fratello maggiore, di 13 anni più vecchio di lei.
Fu sorpresa nel percepire un diretto collegamento tra l’evento infantile e il dolore all’anca: la colpiva la connessione tra la posizione delle gambe e del bacino durante il fatto, e la sua fastidiosa limitazione del movimento pelvico.
Nonostante questa consapevolezza il dolore non sparì, ma al contrario cominciò a mescolarsi a sentimenti di angoscia e di paura; anzi era evidente che da quel momento Veronica evitasse in tutti i modi di rientrare in contatto con tale tematica.
Discutemmo così l’opportunità di dare maggior attenzione ai suoi vissuti corporei, e a tale scopo le proposi di esplorare il semplice stare ferma, fin quasi ad arrivare all’immobilità, cercando di percepire e inibire anche quei micromovimenti che faceva continuamente, e di permettere solo ciò che non si poteva bloccare: il respiro, i gorgoglii viscerali e i pensieri.
Se pensiamo a questa indicazione e la intendiamo come un’indicazione di un setting particolare, possiamo vederla come una estremizzazione del setting classico, dove si cerca di impedire la scarica motoria a favore della libera associazione: l’estremizzazione consiste nell’impedire anche quei piccolissimi movimenti, che generalmente stanno fuori dall’attenzione immediatamente consapevole. Da questo punto di vista il setting classico si occupa fondamentalmente dei macro-movimenti e dei macro-gesti: questa nostra forzatura può essere considerata quindi coerente con il modello.
Veronica decise di rimanere seduta sulla poltroncina e di allungare le gambe in avanti.
Bastarono un paio di minuti per scatenare una sottile ma evidente reazione in lei: il respiro cominciò ad intensificarsi, gli occhi si spalancarono ed un appena percettibile tremito iniziò a percorrerla in tutto il corpo.
“Ho paura… non riesco a fermarmi… mi sento soffocare!”
Le chiesi di concentrarsi il più possibile sulle sensazioni corporee e di seguirne il corso.
“Mi sento una morsa addosso, come se i miei muscoli mi spremessero tutta… e non riesco a respirare… aiuto, non riesco a respirare!”
La invitai a concentrarsi sul suo tremore e a lasciarlo fluire fino in fondo. Mi guardò con occhi disperati, ma al tempo stesso fiduciosi, e cominciò a lasciarsi percorrere da quel lievissimo tremito, sospirando ogni tanto come se stesse riemergendo da onde alte che la sommergevano.
Inizialmente il tremito aveva preso soprattutto la parte superiore del corpo, il torace e le braccia; poi cominciarono a tremare anche le gambe ed il bacino: Veronica sembrava molto spaventata. “Non riesco a fermarle… è come se andassero da sole… ho paura, ho paura di cadere... di non fermarmi più!”
Le chiesi se voleva prendere un cuscino o qualcos’altro per aggrapparsi, cercando di contrastare quella sensazione di caduta senza fondo; mi diede una rapida occhiata e poi, come qualcuno che non può tardare un’azione nemmeno di un attimo, si sporse verso di me, afferrò la mia mano e me la strinse. Non ebbi il tempo di domandarmi il senso del suo gesto, né la coerenza o meno della situazione, perché quel gesto aprì istantaneamente una porta, oltre la quale Veronica trovò il mare grande delle sue lacrime mai piante; il tremito sembrava ora spremere la sua anima come un limone.
Durò alcuni minuti in maniera così forte, finché poi cominciò ad acquietarsi, e la disperazione lasciò il posto ad un’espressione di profonda tristezza: sentii che la sua mano allentava la presa sulla mia e notai che i suoi occhi erano caduti in basso, in un luogo invisibile e remoto, inaccessibile anche a me in quel momento.
Interrompo qui la descrizione della seduta, perché ciò che accade dopo è meno rilevante ai fini della nostra disanima, se non per il fatto che Veronica entra sempre più in contatto con l’esperienza dell’abuso subito, e riesce a completare l’elaborazione di tale esperienza, sia riuscendo a descriverne gli aspetti più salienti, sia ad esperire sensorialmente e motoricamente le strategie di reazione alla drammatica situazione.
“Sento che è successo qualcosa di sacro – disse Veronica alla fine della seduta – è come se tutto si fosse fermato, per la prima volta in vita mia. E’ una sensazione fortissima di esistenza, è come se anche l’aria avesse una consistenza, come se mi rendessi conto per la prima volta che mi sto toccando, che ho un corpo. E’ come se improvvisamente non ci fosse più il vuoto, come se il mondo fosse tutto pieno. Mi vien da dire che questa è l’essenza della spiritualità, ma non so perché sto dicendo questo.”
Cominciava ora, per Veronica, il lavoro più difficile, il duro e lungo confronto con il passato, l’assunzione di una verità non addomesticabile e non più rimandabile, ma al tempo stesso era cominciato il viaggio di ritorno alla sua prima casa, il corpo.
Ma come era potuto accadere?
Una delle cose più sorprendenti di quella seduta con Veronica era stato il fatto che lei non aveva avvertito il minimo dolore all’anca, durante il lavoro, ed era riuscita a fare movimenti che sarebbero stati impensabili per lei un’ora prima.
Ancora più stupefacente fu il fatto che per dieci giorni non ebbe più alcun dolore, il quale si riaffacciò solo in seguito, saltuariamente, e comunque molto attenuato.
Ma cosa era davvero successo in quella seduta?
Ora, a distanza di tempo, posso vedere meglio i passaggi che insieme abbiamo compiuto in quell’ora veramente straordinaria. E’ un lavoro che mostra l’importanza e la validità delle idee di Peter Levine, a cui avevo accennato: innanzitutto l’intuizione etologica sull’importanza dell’immobilità quale processo di possibile superamento del trauma.
Possiamo dire che il processo di approfondimento terapeutico ha avuto inizio nel momento in cui abbiamo accompagnato Veronica ad affrontare lo stato di immobilità corporea. Abbiamo fatto cioè qualcosa che va contro il senso comune, perché invece di aiutare a dinamizzare una persona, l’abbiamo invitata ad entrare attivamente nella polarità opposta, la stasi. Questo le ha permesso di ricontattare l’antica (dal punto di vista filogenetico) difesa e di entrare in quello stato psicofisiologico che gli animali hanno a disposizione per affrontare le situazioni estreme.
E’ interessante notare che, solo l’indicazione di contattare la propria immobilità motoria ha permesso la riemersione della memoria traumatica, e che quello che comunemente chiamiamo stare fermi è cosa ben diversa: stare sdraiati non impedisce tutta una serie di micro-movimenti che modellano lo stato d’animo e lo stato di coscienza della persona. Questi micro-movimenti mantengono un equilibrio nell’individuo: rappresentano quelle implicite ed inconsce strategie di autoregolazione che impediscono la catastrofe del sistema e permettono di tollerare al meglio gli stimoli (Beebe e Lackman, 2003). L’importanza di queste micro-pratiche (Tronick, 2007) è stata mostrata in campo evolutivo ed è ora utilizzata negli interventi terapeutici sulla diade madre-figlio (Downing, 1998, 2007).
L’immobilità invece, come abbiamo visto, può scatenare potenti reazioni, e quindi va affrontata con due fondamentali precauzioni: il contesto di protezione e la focalizzazione sulle sensazioni corporee.
E’ chiaro infatti che, proprio nel caso dell’abuso, qui riportato, l’immobilità è strettamente connessa alla situazione di impotenza vissuta, e quindi può riportare quasi istantaneamente la persona a rivivere la terribile esperienza passata. E’ quindi assolutamente necessario far sì che il paziente percepisca la relazione terapeutica in modo totalmente sicuro, lontano da sensi di minaccia o dalla paura di risultare incompreso o inascoltato. C’è poi un altro aspetto ancora più complesso.
Proprio la traumaticità di certi eventi provoca a volte un fenomeno ben noto ai clinici: la dissociazione dal corpo, molte persone, cioè, riferiscono di non percepirsi più nel proprio corpo, e addirittura, in casi estremi, hanno l’impressione di esserne fuori e di guardare se stessi come un osservatore esterno. Per proteggersi dall’eccesso di terrore e impotenza, la persona ricorre cioè ad uno stratagemma, la separazione da sé, attraverso l’abbandono percettivo del corpo. Non è ovviamente un’operazione volontaria, ma alla lunga diviene cosciente, anche se incontrollabile.
A questo punto è evidente la necessità di ancorare la persona ai suoi vissuti corporei, ogni volta che si immerge in riedizioni di scenari traumatici.
Ma questo è ancora più importante alla luce di un’altra considerazione: il fatto che le situazioni traumatiche sono eccessive, dal punto di vista dell’attivazione neurofisiologica (arousal), e sono quindi insopportabili nel vero senso della parola, se prese nella loro interezza. E’ però possibile scomporle, slegare cioè pensieri e sentimenti dalla componente prettamente sensoriale dell’esperienza; seguire quindi lo sviluppo delle sensazioni corporee e dei piccoli movimenti, fino ai minimi dettagli, fino a che le sensazioni si calmano e i movimenti completano il loro percorso.
In questo modo la persona sviluppa la capacità di auto-regolazione, imparando a limitare la quantità di stimolo/informazione, e prevenendo così il rischio di sovraccarico emozionale.
Lo scopo è dunque quello di slegare il contenuto del ricordo dalle sensazioni fisiche, e di operare su di esse per aumentarne la consapevolezza.
Ricapitolando i passi compiuti nella seduta con Veronica, possiamo notare come siamo entrati in contatto con l’antico trauma tramite la posizione di immobilità; poi l’abbiamo aiutata a far emergere, in contesto di sicurezza, tutte le manifestazioni corporee che si producevano; le abbiamo chiesto di focalizzarsi sulle sensazioni; abbiamo accolto le immagini che scaturivano da quelle sensazioni; abbiamo dato contenimento che la aiutasse a far progredire il flusso delle immagini e delle sensazioni fino a raggiungere uno stato di quiete o di maggior equilibrio.
Sintetizzando e schematizzando il processo abbiamo:
1 - Immobilità
2 - Ancoraggio alle sensazioni
3 - Connessione con le immagini
4 - Completamento del ciclo con uno stato finale coerente di sensazione/immagine/postura.
Questo è ciò che chiamiamo riesperienza sensoriale, e che fondamentalmente mira a ripristinare le difese biologiche di cui la natura ci ha dotato (l’immobilizzazione), reintegrandole con gli sviluppi che la natura stessa ha compiuto (l’apparato cerebrale superiore, o neo-corteccia) a vantaggio e a scapito dell’essere umano.
La finestra di tolleranza
Quanto l’aspetto dell’immobilità sia cruciale nei casi di trauma è confermato dalle ricerche di altri due autori impegnati nel tentativo di comprendere il complesso fenomeno della regolazione emozionale: Daniel Siegel e Pat Ogden.
Il primo autore propone il concetto di Finestra di Tolleranza (Window of Tolerance) e lo inserisce tra le componenti essenziali della regolazione delle emozioni; secondo Siegel “ognuno di noi ha una finestra di tolleranza, margini entro i quali gli stati emozionali di diversa intensità possono essere processati senza che ciò comprometta il funzionamento del sistema nel suo complesso.” (Siegel, 2001, p.249). Ciò comporta che “stati di arousal che superano il limiti della finestra di tolleranza possono generare pensieri e comportamenti disorganizzati”. (Ibidem, p. 249).
Ciò si spiega in termini di attività del sistema nervoso autonomo. Quando infatti noi entriamo in uno stato di eccessiva attività del sistema simpatico, sperimentiamo un incremento delle attività respiratoria e cardiaca, dell’attività muscolare e mentale, fino a provare un senso di tensione generalizzata. In questo caso il soggetto ha superato il margine superiore della sua finestra di tolleranza.
All’opposto, un’eccessiva attività del sistema parasimpatico produce effetti contrari fino a generare un senso di ottundimento e una ridotta reattività a livello mentale: e questo rappresenta il superamento del margine inferiore della Finestra di Tolleranza.
“In queste condizioni, le funzioni cognitive superiori del pensiero astratto e dell’autoriflessione sono compromesse; i circuiti che collegano questi processi corticali ai centri iperattivi del sistema limbico sono funzionalmente bloccati, e il pensiero razionale diventa impossibile… La mente genera attività non organizzate che possono rinforzare il pattern maladattivo: questo è ora uno stato di dis-regolazione emotiva” (Siegel, 2001, p.250)
Tutta questa descrizione di Siegel è per noi di grande importanza perché mostra proprio ciò che accade nei casi di vissuti traumatici, sia mentre stanno accadendo che nella loro riedizione del ricordo, e possiamo perciò cominciare a comprendere come mai Veronica sia entrata molto rapidamente nel cuore della sua esperienza traumatica. Ma per arrivare a questo dobbiamo fare ancora un passo. L’ultimo anello di questa catena esplicativa è dato dalle considerazioni di Pat Ogden (Naropa University, Colorado) che utilizza proprio il concetto di Finestra di Tolleranza per osservare e trattare i soggetti con disturbo post-traumatico.
Ogden infatti osserva che le persone traumatizzate mostrano un funzionamento che deborda dai limiti della loro Finestra di Tolleranza in due possibili direzioni: ci sono persone che rimangono in uno stato cronico di iper-arousal, con conseguente abituale eccessivo stato di allerta, aggressività, iper-vigilanza, reattività e agitazione motoria; oppure persone che prendono la via dell’ipo-arousal, e mostrano quindi una passività difensiva di fondo, caratterizzata da schemi cronici di sottomissione, incapacità di strutturare confini personali, sentimento profondo di inadeguatezza, automatica obbedienza e tendenza a ripetere il loro ruolo di vittima. Poi ci sono le persone, e probabilmente sono la maggioranza, che passano alternativamente da uno stato all’altro: a questa categoria appartiene la stessa Veronica. Il suo continuo doloroso agitarsi intorno al dolore all’anca era il segno del debordare del limite superiore (iper-arousal, eccesso del sistema simpatico), mentre le cadute continue in uno stato di profondo sconforto, fino all’annullamento di sé, erano la dimostrazione dell’oltrepassare il limite inferiore.
Da notare il fatto che Veronica entrava in stati fisiologici di vissuto traumatico, ma la disorganizzazione cognitiva e la dis-regolazione emozionale di cui parlano Siegel e Ogden, impedivano di fatto una sua possibiltà di ricordare ed elaborare.
Il favorire quindi l’esperienza di uno stato che somigliava all’immobilità ha permesso a Veronica di oltrepassare il limite inferiore della sua Finestra di Tolleranza, in maniera attiva, in un contesto di sicurezza ed in presenza del terapeuta. Questo le ha consentito di entrare nel nucleo esperienziale del vissuto traumatico, di cui fino a quel momento possedeva solo una consapevolezza periferica, le ha permesso di incontrare il livello sensoriale e motorio dell’evento, e di poter quindi elaborare in maniera complessiva il ricordo. Questa sorta di tecnica dell’immobilità guidata le ha consentito di entrare in una sua zona di disorganizzazione cognitiva e di dis-regolazione emozionale e di poter cominciare a riorganizzare l’esperienza, nel senso di una vera e propria riparazione.
Un’ulteriore questione rimane però ancora aperta: quali sono i correlati neurofisiologici di questo tipo di accadimento clinico?
Abbiamo cercato di dare una serie di spiegazioni che hanno toccato il livello dell’osservazione clinica, ma non abbiamo un’ipotesi del funzionamento neurofisiologico. A questo scopo possono essere molto utili i risultati delle ricerche di Steven Porges.
I tre livelli di Porges
Abbiamo parlato fino ad ora dell’immobilità, descrivendola come un problema, ma anche come una possibile risorsa, fornitaci dalla natura.
Vi sono però almeno due modi, opposti tra loro, di intendere tale stato: vi è infatti uno stato di altissima tensione che arriva alla paralisi, ed un altro che è prodotto da una sorta di collasso fisiologico generale e che conduce ad uno stato di totale passività.
Queste due situazioni sono apparentemente equivalenti, dato che sono entrambe di immobilità, ma sono opposte perché caratterizzate da stati corporei completamente differenti. La prima è una paralisi attiva, nel senso che le difese mobilitate per far fronte alla minaccia sono di tipo reattivo, sono tentativi di lotta o di fuga, sono frammenti di movimenti utili ad evitare il pericolo o a contrastarlo; siamo cioè nell’ambito del lottare e/o del fuggire attivamente, e la paralisi è dovuta ad una escalation di tali reazioni, bloccata ad un livello di attivazione altissimo.
La seconda è invece caratterizzata da una ipotonia generale, senso estremo di debolezza e impotenza: è l’immobilità tipicamente passiva.
Questo secondo tipo di immobilità non è, come vorrebbe Levine, uno stato successivo al primo, dopo che le difese attive hanno tentato, inutilmente, di proteggere l’individuo, ma è uno stato neurologicamente ben definito e autonomo dal primo.
L’individuo, cioè, può sprofondare direttamente nel congelamento passivo senza dover per forza passare dal tentativo di mobilitazione delle difese attive.
Queste distinzioni ci costringono anche ad una riesamina delle strategie di trattamento, dato che abbiamo di fronte due stati neurofisiologici diversi.
Ma vediamo in dettaglio in che cosa consiste questa differenza.
Qui ci viene in aiuto il lavoro di Steven Porges che delinea tre livelli di regolazione viscerale.
Il più antico è quello connesso con l’area cerebrale del Nucleus Solitarius, ed è dimostrata la sua presenza già nei pesci e negli anfibi; svolge la funzione di regolare i normali processi viscerali durante il riposo, la digestione, rallentando il battito cardiaco ed il ritmo respiratorio.
Questo sistema rappresenta, al tempo stesso, la maggior difesa dell’organismo di fronte alla minaccia; attivando il ramo più arcaico del nervo vago, esso produce un’immobilizzazione caratterizzata da perdita del tono muscolare, paralisi generale, confusione mentale vicina alla perdita di coscienza: è uno stato simile a quello della morte apparente. Questa reazione è evolutivamente importante perché può preservare l’individuo dalla sopraffazione dei predatori o, nel peggiore dei casi, quello della morte, diminuire il senso della sofferenza fisica. Negli esseri umani esso si instaura quando subiamo delle catastrofi, quali fallimenti, abbandoni, violenze, rapine, ecc., che ci fanno sentire che tutto è perduto o che sono in un vicolo cieco. Anche qui è uno stato che preserva dal dolore insopportabile e dal senso radicale di impotenza.
Il secondo livello è rappresentato dal sistema di lotta e/o fuga. E’ un sistema più recente, presente nella maggioranza degli organismi complessi, ed è connesso con il Nucleo Paraventricolare dell’Ipotalamo.
E’ il sistema che predispone alla reazione attiva di fuga o lotta: il cuore aumenta i battiti, il respiro diventa più rapido, la digestione si ferma, il sangue è dirottato dagli organi interni verso i muscoli volontari, e la muscolatura liscia che circonda le viscere diventa tesa, creando una sensazione di nodo allo stomaco. Queste sono le condizioni fisiologiche affinchè l’individuo possa attaccare con rabbia il nemico o fuggire con tutta la forza che ha a disposizione.
Il terzo e più recente sistema è tipicamente umano; esso rappresenta la nostra positiva capacità di interazione sociale, perché è connesso con i nervi cranici che controllano le espressioni facciali, la vocalizzazione e l’udito. E’ anch’esso connesso visceralmente con la funzione di riposo e di rilassamento generale, come il primo sistema citato, ma in questo caso vi è un anche legame diretto con l’area cerebrale che controlla i muscoli facciali e della testa. Questo implica il fatto che noi umani possiamo calmarci visceralmente, diminuire cioè battito cardiaco, respiro, ecc., utilizzando la comunicazione sociale mediante l’espressività del viso, la modulazione della nostra voce e l’ascolto della voce delle altre persone: Porges è il primo a mettere in luce questa connessione anatomo-funzionale, ma ci avverte anche che questo preziosissimo sistema evoluto si attiva solo quando l’ambiente è percepito come sicuro. Questo spiega il grande bisogno umano di comunicare in buona armonia ai fini del benessere individuale. C’è da aggiungere che questo sistema più recente è anatomicamente relato a quello arcaico, dato che entrambi sono attivati dal nervo vago, anche se da due differenti rami. Questa considerazione risulterà importante per quello che segue.
Tornando alla nostra questione circa le due forme di immobilità, attiva e passiva, possiamo ora comprendere meglio a quali sistemi esse si riferiscano. Quella attiva (ipertonica) si riferisce al secondo livello, quello di lotta e/o fuga, mentre quella passiva (ipotonica) è correlata al primo e più antico sistema; e ciò che noi vediamo è che un individuo può automaticamente innescare le difese passive senza nemmeno prima tentare una difesa attiva.
Una vittima di abuso, come sappiamo, può istantaneamente congelarsi piuttosto che reagire, come un autista può non avere il tempo di seguire l’impulso di girare il volante per evitare l’impatto, o una persona può essere subito sopraffatta tentando di respingere un assalitore.
A questo punto possiamo affermare che, nel caso di paralisi ipertensiva, data cioè da un escalation del sistema di lotta/fuga, noi dobbiamo aiutare il paziente a scaricare questo eccesso di energia attivata; mentre nel caso di paralisi ipotensiva, data cioè da un collasso nel sistema arcaico di difesa, noi dobbiamo aiutare innanzitutto la persona a modificare la percezione che ha dell’ambiente circostante: trasformare il senso di minacciosità in senso di sicurezza.
L’esperienza clinica conferma costantemente quanto Porges ipotizza nelle sue ricerche: se invitiamo, infatti, un paziente totalmente collassato e invaso dal terrore ad attivare una qualsivoglia reazione, otterremo l’effetto oposto: non solo non si attiverà, ma potrà percepire anche il terapeuta come fonte di minaccia. Anche i più semplici inviti a fare qualcosa, cambiare posizione, respirare, emettere suoni o proferire parole sono inutili e a volte dannosi. Ma anche il tentativo esplicito e verbale di rassicurare la persona sulla bontà e tranquillità della situazione fallisce, perché non fa i conti con il fatto che tale collasso comportamentale è mediato da uno stato viscerale non volontario e guidato da un sistema cerebrale molto profondo. Serve invece, in questi casi, parlare alla persona molto lentamente e dolcemente, modulare i toni della voce, stimolare una comunicazione vis a vis, dove il paziente comincia ad uscire dall’immobilità espressiva mediante l’attivazione del sistema vagale più recente. Quello che l’esperienza clinica ci mostra incoraggia l’ipotesi teorica dei due sistemi, il primo ed il terzo, anatomicamente collegati e la conferma del fatto che, per uscire dal collasso del primo occorre attivare le procedure del terzo. Tutto ciò, come possiamo notare, è in grande sintonia con quanto siamo andati dicendo fin qui a proposito del tipo di lavoro necessario nei casi di trauma ed abuso.
Conclusioni
Concludendo possiamo riassumere i punti fin qui sviluppati.
Il trattamento del trauma mostra zone di ampia resistenza alle terapie esclusivamente verbali proprio per le caratteristiche specifiche della memoria traumatica. I ricordi traumatici hanno infatti una sorta di statuto proprio, dato che sembrano incapsulati all’interno della struttura psichica dell’individuo, e quando riemergono tendono a sfuggire ad una trama narrativa, ma si presentano sotto forma di frammenti sensoriali intrusivi ed improvvisi.
Molti autori concordano sullo statuto neurofisiologico di tali esperienze soggettive, e ne mettono in luce la funzione di disorganizzazione cerebrale, soprattuto per quanto riguarda l’interruzione delle connessioni con le aree deputate all’elaborazione del linguaggio.
Si ipotizza pertanto che occorra introdurre nel trattamento un’attenzione supplementare alla dimensione della corporeità, senza incorrere in quegli errori che molte psicoterapie a mediazione corporea commettono, applicando tecniche di intervento non adeguate al problema.
Siegel, Ogden e Porges offrono strumenti concettuali utili allo scopo, perché attraverso la Teoria dei 3 livelli e il concetto di Finestra di Tolleranza ci permettono di aprire la scatola nera del paziente ed aiutarlo a rimettere in gioco una parte importante di sé, anzi proprio una porzione essenziale del Sé.
Come dice Siegel lo scopo del lavoro è allargare i limiti della Finestra di Tolleranza “per permettere ai processi di autoorganizzazione del sistema di ritornare a un flusso di stati che si muovono in maniera equilibrata verso una maggiore complessità, evitando, ai due estremi, attivazioni eccessivamente rigide o eccessivamente casuali e caotiche”. (Siegel, 2001, p.255)
Bibliografia
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- Downing G. (2007),A different way to help, in: Greenspan, S. & Shanker, S. (Eds.).
- Downing, G. (1998), Il corpo e la parola. Roma: Astrolabio.
- Siegel, D. (2001), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano: Raffaello Cortina.
- Ogden, P., Minton, K. (2000), Sensorimotor Psychotherapy: One Method for Processing Traumatic Memory. Volume VI, Issue 3, Article 3.
- Ogden, P. (2006), Trauma and the body. New York: casa editrice
- Porges, S., W. (1995), Orienting in a defensive world: Mammalian modifications of our evolutionary heritage: A Polyvagal Theory. Psychophysiology, 32, 301-318.
- Porges, S., W. (1997), Emotion: an evolutionary by-product of the neural regulation of the autonomic nervous system. Annual of the New York Academy of Science, 807, 62-77.
* Psicologo, Presidente della Società Italiana di Biosistemica, Docente presso l'Università di Bologna.