LA DISSOCIAZIONE

DISSOCIATION

 

Cristina Angelini[*]

 

Abstract

     L’articolo illustra la Dissociazione con lo sforzo di sintetizzare questo complesso costrutto teorico. L’argomento è complesso e può dare adito a confusione soprattutto per quanto riguarda i criteri classificativi/diagnostici dei DSM; questi ultimi non risultano sempre chiari ed esaustivi nell’inquadramento della sindrome, anzi, spesso, sono fonte di equivoci interpretativi. La classificazione che identifica il disturbo in Dissociazione di Stato e Dissociazione Strutturale è fondamentale e permette un chiaro inquadramento nosologico del paziente e con esso un più sicuro approccio terapeutico. Nell’approccio reichiano contemporaneo è stato sviluppato un metodo di intervento corporeo molto preciso e, una volta individuato il come, il dove e il quando sulla freccia del tempo evolutivo soggettivo della persona sia avvenuto un evento traumatico, possono essere scelte attivazioni appropriate e non generiche.

 

Parole chiave

       Dissociazione di stato -  dissociazione strutturale - sintomi negativi - sintomi positivi – controtransferalità - approccio Reichiano Contemporaneo.

 

Abstract

     The article offers an analysis of dissociation, a complex phenomenon that can generate confusion, particularly in relation to the diagnostic criteria provided by the DSM. These criteria, in fact, are not always able to clearly and completely delineate the dissociative disorders, and can lead to ambiguous interpretations. It is important to distinguish between State Dissociation and Structural Dissociation, as this classification is crucial for understanding the patient's condition and developing an adequate therapeutic intervention. Dissociation can manifest itself in different ways and its correct identification allows for more targeted treatment strategies. Within the contemporary Reichian approach, a precise method of bodily intervention has been refined that focuses on precisely identifying when a traumatic event occurred in the patient's individual timeline. This identification allows to choose specific and appropriate therapeutic activations, rather than generic interventions. In this way, treatment can be tailored to each individual's unique needs, facilitating greater therapeutic efficacy.

 

 Key words

      State dissociation - structural dissociation - negative symptoms -  positive symptoms - counter transference - Contemporary Reichian Approach.

 

 

     Il termine “dissociazione” è utilizzato da diversi autori in modo differente e con disaccordo rispetto alle cause e ai fenomeni, ed è diventato un costrutto teorico enorme che rischia l’effetto cestino, dato l’elevato numero di sintomi che vengono ormai riferiti a eventuali disturbi dissociativi (Van der Hart, Ellert, Nijenhuis, Steele, 2006).In origine è stato usato da Janet per intendere una divisione della personalità e della coscienza, una divisione tra sistemi di idee e funzioni che costituiscono la personalità.Qui lo useremo intendendo il fallimento della funzione di integrazione del Sé, riferendoci al fatto che noi tutti abbiamo un senso del Sé che dovrebbe rimanere abbastanza costante, anche nelle diverse scene della vita.Verranno esposti i principali sintomi, i principali costrutti teorici esplicativi, le ipotesi eziopatogenetiche, i principali disturbi codificati nel DSM-V e verranno dati cenni sui diversi tipi di trattamento.

 

Sintomatologia

     In origine i sintomi dissociativi erano soprattutto sintomi negativi, di mancanza; in particolare tutte quelle parole che cominciano con de: de-personalizzazione, stati in cui la persona non è dentro il proprio corpo e si vede dal di fuori; de-realizzazione, cioè quelle esperienze in cui i pazienti ci raccontano di non riconoscere più nemmeno i luoghi familiari, quando sembra tutto irreale; le amnesie, che possono essere amnesie circoscritte a degli episodi specifici (spesso di natura traumatica), oppure un funzionamento amnesico, in cui la persona scorda sistematicamente le cose, e in questo caso sarà necessaria una diagnosi differenziale: un conto è un’amnesia legata ad un inizio di Alzheimer e un altro è vedere persone che funzionano benissimo in certe aree, per esempio quella lavorativa, e poi quando si entra in un’altra area, per esempio quella affettiva, si osserva un decadimento delle funzioni cognitive, e/o una interruzione della memoria. Ci sono poi esperienze di detachment, di distacco, tipo trance; una serie di disturbi della propriocezione, confusione, anche disturbi dell’equilibrio: cito per esempio una paziente che ogni volta che si parlava dell’abuso subìto da parte del padre entrava in confusione, aveva giramenti di testa e nausea che le impedivano di continuare.

     Poi ci sono i sintomi positivi, un po’ più controversi, perché si può arrivare a situazioni in cui il paziente riferisce di sentire delle voci, ma dove non sembra essere presente un quadro psicotico e le voci sembrano più rappresentare parti scisse e dissociate della persona. Esistono poi tutta una serie di sintomi di conversione somatica, in questo caso sia in meno che in più: o non si sente niente, quando c’è ottundimento e/o non si sentono parti del corpo, o viceversa quando si sente troppo. Ci sono poi sintomi di dejà vu e sintomi intrusivi che assomigliano molto a quelli post-traumatici di ripetizione di pezzi dell’esperienza traumatica. Una sintomatologia così vasta può essere legata ad una eziopatologia diversa.

 

Eziopatologia

     Nella letteratura corrente ci sono due letture prevalenti. La prima lettura è quella di una dissociazione di stato: fenomeni, esperienze dissociative che sono riferite a uno stato specifico, e sono di solito legate a degli eventi soverchianti (ad esempio nel film “Io Capitano”, il ragazzo quando viene torturato in Libia ha delle esperienze dove vede uno spirito soprannaturale, un “Jin”, una presenza magica). Le esperienze di depersonalizzazione sono spesso riferite da chi ha subito tortura o altre esperienze soverchianti in cui la persona sviluppa uno stato dissociativo a scopo difensivo, e che non è detto che porti poi a strutturare un disturbo stabile nel tempo. Ormai è noto che le esperienze fortemente traumatiche non è detto che necessariamente esitino nella strutturazione di un disturbo post-traumatico (PTSD secondo i criteri del DSM-V).

     Possiamo riferire ai disturbi di stato anche il collasso descritto da Porges: quando ci sono situazioni che non riusciamo a fronteggiare e si crea uno stato di collasso, dovuto all’attivazione del nervo vago dorsovagale non mielinizzato, dove la persona può arrivare a svenire. In contesti bellici e post bellici fortemente traumatizzanti sono casi frequenti: per esempio a Gaza, anche prima dell’ultimo devastante attacco di Israele, o in Libano, nei campi di rifugiati sia palestinesi che siriani, molti bambini e anche molti adulti venivano diagnosticati per epilessia (in contesti in cui tuttavia scarsa era la possibilità di fare un elettroencefalogramma, e dunque di confermare la diagnosi); moltissimi di questi disturbi sembravano riferibili a situazioni post traumatiche, anche se purtroppo nella maggior parte dei casi venivano pesantemente trattati in modo farmacologico, spesso con antiepilettici. (Angelini, Pera, 2019).

     La dissociazione di stato si verifica anche in situazioni non così estreme come quelle citate, ma anche in altre più comuni, come essere sottoposti a un intervento medico molto invasivo: è una difesa che in quel momento “ci stacca” dalla situazione soverchiante e che finisce lì. Altre volte invece quando c’è un trigger o quando semplicemente si riparla della stessa esperienza (come nella paziente abusata) si riprova la stessa situazione dissociativa.

Angelini immagine     La seconda lettura è la teoria della dissociazione strutturale (Steele, Boon, Van der Hart, 2017). Gli autori parlano di tre stadi o tre livelli dissociativi: primario (connesso con il PTSD semplice e i suoi sintomi), secondario (connesso con il PTSD complesso), e terziario (che si può identificare con il DID - Disturbo Dissociativo dell’Identità nel DSM). Molto in breve: nella dissociazione strutturale c’è una parte apparentemente normale (ANP), quella che sta nel mondo, fa le cose e appare integrata; poi ci sono la o le parti emozionali e dissociate (EP-Emotional Part) che si possono manifestare in specifiche situazioni trigger ed hanno un funzionamento spesso iperattivato e veemente emozionalmente, molto diverso da quello della ANP. Con questo non si intende dire che la ANP non prova emozioni sane e naturali, ma che la o le EP sono portatrici di emozioni non adattive, eccessive e disfunzionali rispetto alla situazione presente e sono dunque legate al trauma accaduto nel passato. Nella dissociazione strutturale primaria ci si riferisce ad una ANP e una EP; in quella secondaria possono esserci più EP e rimane intatta una ANP; nella dissociazione strutturale terziaria può avvenire una divisione della ANP, di solito quando aspetti non evitabili della vita quotidiana sono associati e riattualizzano i traumi passati.

     Per episodio/esperienza traumatica si intende qualcosa che ha travolto le capacità di coping adattive della persona che sono crollate; non è detto che questo crollo porti necessariamente a un disturbo post-traumatico: quando ho lavorato a Gaza, prima che Hamas salisse al potere, abbiamo visto molti combattenti  palestinesi dell’OLP che erano stati torturati in prigione e a volte riferivano episodi dissociativi di stato, ma non avevano sviluppato un vero PTSD secondo i criteri del DSM: erano considerati degli eroi e questo elemento li faceva sentire forti e dava loro un riconoscimento sociale importantissimo. Le circostanze per cui noi sviluppiamo o non sviluppiamo un disturbo sono sempre molto complesse e variegate (Ibidem, 2019).

     La dissociazione risulta spesso connessa con traumi che avvengono in età infantile, perché il sistema nervoso del bambino è ancora immaturo e ha scarse capacità di coping. Noi cominciamo a sviluppare la memoria biografica dai tre anni e se abbiamo degli episodi traumatici quando siamo molto piccoli è più facile sviluppare un disturbo dissociativo strutturale (non una dissociazione di stato) proprio per l’immaturità biologica. L’altra ragione di questa correlazione tra l’età infantile e dissociazione è che noi siamo dei mammiferi con un lungo tempo di attaccamento ai nostri caregiver, con una grande necessità di adattarci a loro e all’ambiente a loro legato, che ci garantisce sicurezza e maggiore possibilità di sopravvivenza. Abbiamo bisogno di loro più a lungo di qualunque altro mammifero, e dunque quando gli abusanti sono gli stessi caregiver, per continuare a sopravvivere li si deve salvare e per farlo dobbiamo dissociare. Essendo specializzata nel trattamento di traumi da violenze sessuali e intrafamiliari, seguo molti pazienti che hanno sviluppato queste caratteristiche (Angelini, 2019).

 

Disturbi

     Nel DSM-V abbiamo una serie di disturbi associabili a dissociazione: il Disturbo Dissociativo dell’Identità (DDI) è l’equivalente di quello che in passato era definito “Disturbo della personalità multipla” (frequente nei film di Hitchcock); viene diagnosticato piuttosto raramente e soprattutto negli Stati Uniti.

     La maggior parte dei disturbi dissociativi rientra in realtà nella categoria Disturbo Dissociativo Non altrimenti Specificato (DESNOS-Disorder of Extreme Stress Not Otherwise Specified). In questa categoria del DSM rientrano quasi tutti i disturbi dissociativi, però troviamo disturbi dissociativi anche all’interno di altre classificazioni diagnostiche: nel Disturbo Acuto da Stress, nel PTSD, ma soprattutto nella variante PTSD Complesso (Complex PTSD), che non è stata inserita nel DSM ma che oramai è ampiamente utilizzata dai clinici. Il PTSD Complesso è un PTSD che si va a incrociare con i disturbi di personalità; di solito è collegato a traumi infantili ripetuti come l’abuso cronico familiare, ma può riguardare anche le persone imprigionate per tanto tempo, le vittime di trafficking costrette a vivere in bordelli in una situazione di abuso cronico, ecc...  Molti sintomi dissociativi sono presenti anche nel Disturbo Borderline di Personalità che nel DSM-V è stato fortemente collegato a situazioni traumatiche infantili.

     Come già accennato il DID, è quello più raro, corrisponde alla dissociazione post-traumatica che i teorici della dissociazione strutturale chiamano terziaria, mentre la dissociazione primaria e secondaria sono presenti in situazioni che si incontrano spesso nella pratica clinica, anche se sono a volte impressionanti.

     Voglio citare il caso di una paziente con un disturbo dissociativo e vorrei fare in primis una riflessione sulla controtransferalità: con questa paziente sin dall’inizio della relazione terapeutica dimenticavo tutto, come se sentissi una nebulosa che la circondava, inoltre lei aveva una evidente difficoltà a riportare i fatti che le accadevano, a volte poteva citare solo “i titoli”, per così dire, del tipo: “ho litigato con mio marito”, ma non era in grado di riferire cosa era successo nella realtà. Ho iniziato a dirle di segnarsi le cose subito, appena accadute, per poterle poi riportare in terapia, ed è emersa una relazione matrimoniale molto violenta, soprattutto verbalmente, ma anche con episodi di violenza fisica. Un giorno è arrivata in seduta con una evidente ecchimosi, ma anche qui con molta confusione su come se la fosse fatta, e con la necessità di una ricostruzione attenta dei fatti (che poi sono risultati essere l’ennesimo scatto violento del marito). In generale anche la memoria sulla sua vita infantile o giovanile era scarsissima, e a questo proposito le ho chiesto di chiedere ai familiari con cui si sentiva a suo agio cosa accadesse a casa e se avvenissero episodi di violenza domestica. La sorella, di fronte a questa richiesta, era rimasta estremamente sorpresa che non ricordasse nulla; le avrebbe raccontato ciò che ricordava lei, ma solo di fronte alla terapeuta, per paura delle sue reazioni emotive.

     Nella seduta fatta insieme la sorella ha raccontato molti episodi estremamente violenti, tra cui uno in cui la paziente 14enne venne presa per la testa e sbattuta sullo spigolo del tavolo dal padre, mentre sanguinante cercava di difendersi (e su questo episodio la paziente ha recuperato qualche frammento mnestico); ha raccontato poi una serie di altre situazioni violente di questo tipo, e alla fine anche che il padre la sera andava nella loro camera e si masturbava in loro presenza. Lei di questo non ricordava niente. Successivamente il padre, con cui aveva brevi e saltuari contatti telefonici (unica della sua famiglia ad aver mantenuto i contatti con lui), le aveva poi confermato tutto piangendo e dicendo che non riusciva a fare a meno di masturbarsi di fronte a loro.

     La paziente aveva questo marcato disturbo della memoria nell’area che riguardava l’affettività, ma allo stesso tempo era una donna molto realizzata nell’area lavorativa, area che era rimasta completamente integra. Il poter integrare le memorie scisse l’ha molto aiutata, anche se è stato ovviamente doloroso, e le ha permesso di poter finalmente procedere nella separazione dal marito violento.

     Questo è un esempio di dissociazione strutturale, pazienti che crollano nelle funzioni cognitive quando si tocca una sfera emotiva e relazionale che è stata segnata da traumi (spesso infantili e intra-familiari), e che funzionano in modo perfettamente integrato in altre aree.

    Sottolineo anche il fatto che nella psicoterapia corporea reichiana contemporanea l’attenzione alla contro transferalità (di tratto in questo caso) è un aspetto cruciale del setting terapeutico, in cui i livelli corporei dell’analizzato entrano in risonanza con quelli dell’analista e sviluppano quella intercorporeità e intersoggettività che ci permette una sintonizzazione con il paziente e una maggiore comprensione della sua situazione.

 

 

Trattamento

     Il trattamento corporeo è ormai considerato quello più indicato, ma bisogna riflettere su quale tipo di trattamento corporeo. Ci sono pazienti che hanno avuto ripetute esperienze di abreazione, di liberazione, di urlo, di movimento libero senza grande beneficio e spesso reiterando gli episodi dissociativi; è da fondamentale riflettere molto prima di proporre esercizi corporei. Quindi la domanda è: che tipo di trattamento corporeo? Un lavoro sugli occhi (1° livello reichiano) è quello che ritengo fortemente indicato in questi casi.

     Il trattamento corporeo aspecifico è criticabile per la mancanza di visione complessiva dello specifico caso e della specifica storia di quel/quella paziente. Nell’approccio reichiano contemporaneo è stato sviluppato un metodo di intervento corporeo molto preciso: una volta individuato il come, il dove e il quando sulla freccia del tempo evolutivo soggettivo della persona è avvenuto un evento traumatico, possiamo scegliere di utilizzare delle attivazioni appropriate.

     Spesso partire dalla convergenza oculare, richiamando una attivazione prefrontale, fa risalire la persona dalle profondità rettiliane di allarme estremo, permettendo di nuovo la presenza nel qui ed ora. L’acting del punto fisso luminoso può essere uno, ma anche l’attivazione del naso-cielo (cioè un movimento oculare che va dal naso ad un punto lontano) può essere un altro; inoltre come proporre queste attivazioni corporee, con quale controtransfert, e con quale eventuale variante addizionale è da decidere su base clinica. L’ipotesi di fondo è che attivando la convergenza oculare, si possa ri-costruire / ri-cucire la scissione tra gli aspetti cognitivi neo-palliali con la parte emozionale scissa (EP) di pertinenza limbica-rettiliana, la quale ha assunto un funzionamento autonomo e disfunzionale rispetto alla parte apparentemente normale (APN).

     Specifica attenzione va data ai trattamenti corporei di gruppo se ci sono stati episodi dissociativi: questa può essere una grossa controindicazione per l’intensità emotiva che si crea spesso nel lavoro di gruppo e per l’impossibilità di una specificità focalizzata al 100% su quel singolo paziente. Sebbene i trattamenti bottom up, corporei, siano quelli più indicati, io penso che il golden treatment non ci sia: dovremmo vedere lo specifico paziente che abbiamo davanti e il trattamento andrebbe calibrato su misura.

     Con i migranti sopravvissuti a tortura e altri eventi estremi (Angelini, 2019) abbiamo fatto delle azioni apparentemente semplici, anche perché i setting non erano sufficientemente protetti, e non si poteva fare niente di eccessivamente sofisticato, e se qualcuno si dissociava gli si tirava una palla all’improvviso e doveva prenderla, oppure gli si chiedeva: “Nomini tre cose rosse che vedi nella stanza?”. Erano dei modi semplici per riportare la persona nel qui ed ora, e riattivare l’ocularità e il neo-pallium. (Boon, Van der Hart, Steele, 2011).

     Voglio specificare che i disturbi dissociativi sembrano indipendenti dalle diversità culturali e dalla cultura di appartenenza: possono apparire in persone che hanno appartenenze culturali anche molto diverse tra loro; la manifestazione sintomatica è la stessa, quello che cambia è invece solitamente l’interpretazione data ai sintomi, che sono comunque letti attraverso le lenti della cultura di appartenenza (per esempio possono essere riferiti a fenomeni di tipo soprannaturale soprattutto all’interno di culture animistiche come quelle africane). (Onofri, Castelli, Angelini, 2017).

     Fino ad ora mi sono prevalentemente focalizzata sulla dissociazione associata a traumi infantili ripetuti, ma c’è tutto un ambito di ricerca che esplora quello che noi chiamiamo “l’intrauterino”, cioè la vita prenatale, in cui possono verificarsi episodi traumatici importanti che hanno un impatto sull’individuo in formazione, e c’è anche l’ambito dei traumi trans generazionali, che circolano tra le generazioni ripetendosi: di solito esperienze non verbalizzate e non metabolizzabili che circolano nelle atmosfere familiari senza poterle né verbalizzare né vedere chiaramente. Anche le costellazioni familiari e l’epigenetica sono interessanti territori di ricerca a questo proposito.

       

 

 

BIBLIOGRAFIA

Van der Hart, O., Ellert, R.S., Nijenhuis, Steele, K. (2006), Fantasmi nel sé. Raffaello Cortina ed..

Angelini, C., Pera, E. (2019) “Lavoro con i profughi all’estero” in Clinica del trauma nei rifugiati, manuale tematico a cura di E. Vercillo e M. Guerra, ed. Mimesis/Clinica del trauma e della dissociazione Milano.

Steele, K, Boon, S., Van der Hart, O. (2017), La cura della dissociazione traumatica, a cura di G. Tagliavini, ed  Mimesis/Clinica del trauma e della dissociazione, Milano.

Angelini, C. (2019), La violenza sessuale e di genere, in Clinica del trauma nei rifugiati, manuale tematico a cura di E. Vercillo e M. Guerra, ed. Mimesis/Clinica del trauma e della dissociazione Milano.

Angelini, C., Castelli, P. (2019), Interventi di gruppo con i migranti forzati e rifugiati in Italia e all’estero in Clinica del trauma nei rifugiati, manuale tematico a cura di E. Vercillo e M. Guerra, ed. Mimesis/Clinica del trauma e della dissociazione Milano.

Boon, S., Van der Hart,O., Steele, K. (2011), Coping with trauma related dissociation, Norton&Company New York.

Onofri, A., Castelli, P., Angelini, C. (2017) “The EMDR approach used as a tool to provide psychological help to refugees and asylum seekers” in Cultural competence and healing culturally based trauma with EMDR therapy - Innovative strategie and Protocols, Mark Nickerson editor, Springer Publishing Company New York.

Ferri, G. (2020), Il tempo nel corpo- Attivazioni Corporee in Psicoterapia. Roma: Alpes ed.

[*]Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

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