IL TRAUMA DELLA GUERRA E L'ANALISI REICHIANA CONTEMPORANEA 

CONTEMPORARY REICHIAN ANALYSIS AND WAR TRAUMA

 

Edoardo Pera[*]

 DOI 10.57635/SIAR43

Abstract

     L’articolo parte dall’esperienza dell’autore durante gli ultimi vent’anni in missioni in situazioni post-emergenziali, principalmente in Medio Oriente. È  un’esplorazione su cosa può essere il trauma di Guerra e di come l’Analisi Reichiana Contemporanea può comprendere il processo e, se possibile, aiutare, anche in sinergia con altri approcci. A causa della complessa situazione sociale, culturale e politica la ricerca è ancora ai primi passi, cercando di comprendere la struttura del trauma di guerra e cominciando a proporre alcune attivazioni corporee. Ci sono cose che possiamo fare e cose che non possiamo fare quando siamo sul campo.

 

Abstract

     The article starts from the experience of the author in the last twenty years in post-emergency missions, mainly in Middle East. It is an exploration of what War Trauma can be and how Contemporary Reichian Analysis can understand the process and possibly help, even in cooperation with other approaches. Due to the complex social, cultural and political situation the research is at the beginning, trying to understand the structure of War Trauma and starting to propose some bodily activation. There are things we can do and things we can’t do when we are in the field.

 

Parole chiave

     Trauma - Guerra - Analisi reichiana contemporanea - Medio Oriente.

 

Key words

     Trauma - War - Contemporary Reichian Analysis - Middle East

 

 

Una goccia nel deserto

     Siria, poco prima dello scoppio della guerra. Le tensioni sono già forti. M. è un ragazzo, viene torturato quasi a morte per giorni. Alla fine di questo periodo di tormenti viene rilasciato, esce dall’edificio dove è stato trattenuto ma un cecchino gli spara tre colpi, centrandolo. La notizia della sua morte si diffonde, anche i media ne parlano. In quel periodo in Siria una singola uccisione fa ancora notizia. I familiari vengono per prenderne il corpo. Mentre sono attorno a lui qualcuno si accorge che M. è ancora vivo. Lo prendono e lo portano velocemente in Giordania, dove è sottoposto a una decina di operazioni. Si salva, ma porta su di sé tante ferite e cicatrici, non solo fisiche. Questa è solo una delle tante storie incontrate in questi anni.

     La racconto perché M. è stato uno dei pazienti di Hala, la psicologa giordana di 23 anni e pochissima esperienza che ho avuto il compito di formare, insieme ad altri psicologi e operatori, durante alcune missioni in Medio Oriente. Potrebbe sembrare una situazione senza speranza. Esperienze traumatiche individuali e collettive che si moltiplicano e si accavallano a formare un tessuto fittissimo di sofferenze e di sintomi post-traumatici. Chi lavora in queste aree devastate da guerre, migrazioni, disastri spesso ha la sensazione di trasportare con fatica una goccia d’acqua attraverso il deserto. Ma sul valore di questa goccia tornerò più avanti. Quello che si può dire è che chi è impegnato in questo campo ha incontrato menti e corpi che portano i segni di tanta sofferenza. Menti smarrite o impaurite, corpi colpiti, straziati, che conservano nelle loro contrazioni dolorose le memorie di quelle esperienze.

 

Il trauma e il corpo

     Il trauma (dal greco, ferita, rottura) per definizione si pone come evento o serie di eventi con caratteristiche tali da risultare soverchianti, non integrabili dalla persona, superando la sua capacità di gestione e minacciando l’integrità e la coesione della sua coscienza.

     Grazie allo straordinario sviluppo delle neuroscienze negli ultimi anni gli studi sugli effetti del trauma hanno potuto avere un notevole progresso. Le risonanze magnetiche funzionali e altre tecniche d’indagine hanno evidenziato il ruolo del corpo nell’esperienza traumatica, sottraendola così a una rappresentazione precedente perlopiù disincarnata. I principali studi sul tema (Van Der Kolk, Odgen, Siegel) hanno sottolineato come essendo il corpo il primo a ricevere il colpo sia anche il primo a dover essere coinvolto nel processo terapeutico. In Clinica del trauma nei rifugiati (Vercillo e Guerra, 2019) scrivono:

     Ma è proprio il corpo il bersaglio principale delle violenze e dei traumi, e i preconcetti che ne derivano sono molti, psicopatologicamente di differente valore, e tra i più invalidanti. Sorgono nel momento dell’evento traumatico, o si instaurano successivamente, per cui li vediamo nell’immediato post-traumatico, oppure anche in forme croniche. Anzi, è proprio “il corpo ad accusare il colpo” (Van der Kolk, 2014) e a conservarlo; per questo motivo oggidì non si concepisce terapia per il trauma che non consideri interventi somatici, in una delle tre fasi in cui si dipana per consenso comune il trattamento post-traumatico.

     Questo consenso comune cui accennano i due autori può essere sostanzialmente riassunto in un’articolazione in tre fasi: la prima fase è la stabilizzazione, durante la quale si procede ad aumentare la regolazione emozionale, riducendo per quanto possibile le situazioni di hyper-harousal e di hypo-arousal e quindi portando la persona a rimanere all’interno della finestra di tolleranza. Si cerca di risolvere i sintomi e i comportamenti più invalidanti, in particolare gli stati dissociativi. Ciò consente anche lo stabilirsi o il rinforzarsi di un’alleanza terapeutica. La seconda fase è quella dell’elaborazione vera e propria dell’evento traumatico, con la possibilità che ci sia la riemersione dei vissuti dolorosi, avendo però gettato le basi in precedenza affinché questo possa essere tollerato dal paziente. La terza fase infine è relativa all’integrazione delle parti e dei vissuti interiori e all’integrazione  relazionale e sociale, in altre parole al suo sviluppo nella vita. Le tre fasi sono ovviamente interconnesse tra di loro, ci sono spesso elementi dell’una o dell’altra che si possono presentare in momenti differenti, ma questo non toglie l’utilità di fondo della suddivisione.

     Da questa articolazione, ormai ampiamente sperimentata sul campo, deriva che, per affrontare l’elaborazione delle memorie traumatiche, sarà prima necessario che la persona possa avvicinarle senza rischio di destabilizzarsi e cadere in reazioni terapeutiche negative. Ancora Vercillo e Guerra osservano che il concetto di stabilizzazione viene dalla medicina: prima di sottoporre un paziente a un’operazione chirurgica, o ad altro intervento specifico, a meno che non si tratti di urgenza da pronto soccorso, il paziente deve essere considerato stabilizzato. Questo concetto abbastanza intuitivo è stato a lungo trascurato ma l’esperienza clinica ha nel tempo fornito una solida base d’appoggio alla necessità di questa fase.

     I due autori segnalano anche che è fondamentale che il paziente nella prima parte del trattamento cominci a superare la fobia dei ricordi, delle emozioni e delle parti, così come è stata definita da Janet in poi. Nella fobia delle parti si rileva come ogni parte provi una repulsione verso l’altra  e come cerchi di sopprimerla.

     Il trattamento di questa particolare fobia tra le parti è un obiettivo prioritario in terapia per favorire (…) un’alleanza dei suoi sottosistemi proficua per la persona, e procedere verso una futura integrazione. (Vercillo, Guerra, 2019)

     Si vede come questo approccio sia il contrario del tentativo di eliminare le parti cattive e sia in linea  invece con una lettura che cerchi di includere l’intelligenza dei sintomi e dei sottosistemi tra le possibili chiavi del lavoro terapeutico.

     Dalle neuroscienze abbiamo ricevuto negli ultimi anni informazioni preziose sul sistema nervoso centrale e sul sistema nervoso autonomo. Dal punto di vista del sistema nervoso centrale la psicoterapia efficace dovrebbe operare riportando sia le strutture limbiche sia quelle neocorticali allo stato omeostatico presente prima dell’insorgenza della patologia. Negli studi sugli effetti a livello neurobiologico di alcune psicoterapie si è visto che un buon esito delle stesse mostra una riduzione dell’attività dell’amigdala e dell’insula e un aumento di quella della corteccia cingolata anteriore dorsale e dell’ippocampo (Pagani, Cavallo, Carletto, 2019). Allo stesso tempo devono essere valutate le reazioni del sistema nervoso autonomo, che come la Teoria Polivagale di Steven Porges ha evidenziato, non ha una sola modalità di risposta allo stress, l’attacco/fuga, come a lungo ritenuto da scienziati e terapeuti. Di fronte al pericolo e alla minaccia di vita, può entrare in funzione il sistema dorso-vagale, cioè il ramo più antico e non mielinizzato del sistema nervoso parasimpatico, portando a una risposta che può essere l’immobilizzazione o il collasso. Questo tipo di risposte opera al di fuori della coscienza e del controllo della persona. (Porges, 2017)

 

L’Analisi Reichiana Contemporanea e il traumaIMG PERA Didascalia Mosul. foto di Emanuele SatolliEmanuele Satolli: Mosul

     Cosa può dire l’Analisi Reichiana Contemporanea sul trauma? L’introduzione della freccia del tempo nel modello ha permesso di connettere la prevalenza dei vari livelli corporei con le fasi evolutive. Lo sviluppo della personalità e della sua specifica combinazione di tratti caratteriali può essere descritta come la costruzione di un palazzo. Le varie fasi evolutive costituiscono i piani, gli appartamenti di questo palazzo, in cui ognuno si costruisce sull’altro.  Fase intrauterina, fase orale, fase muscolare e via via tutte le altre, la costruzione del palazzo segue la freccia del tempo, l’ontogenesi. I livelli corporei relazionali entrano in prevalenza in base alla funzionalità di ogni fase.  Così il sesto livello, l’addome, sarà prevalente nella fase intrauterina, il secondo, la bocca, in quello orale e così via, in una sequenza tenuta insieme dai vari passaggi dello sviluppo ontogenetico. Le esperienze, i segni incisi durante le varie fasi renderanno quegli appartamenti più o meno funzionali, armonici o disarmonici, finendo per costituire una combinazione, un’architettura assolutamente unica e irripetibile. Gli eventi che si svolgono nel qui e ora o i cambiamenti di scena possono risuonare con questa o quella fase e riattivarne i pattern. Quale può essere quindi l’effetto di un trauma su questo unicum? È sufficiente definire il trauma un fortissimo segno inciso?

     La freccia del tempo interno è accostabile e può essere identificata con la freccia neghentropica evolutiva, per cui se un evento mi procura un allarme vitale in profondità o una ferita lacerante connessa con impotenza urlante ed infinita […] esso è prossimo allo zero entropico della freccia, di fatto attiva le aree e le reti presoggettive del cervello rettiliano, deputate alla sopravvivenza. L’evento ci può devastare e attivare oltre-soglia il locus coeruleus, deputato all’allarme rosso nel Sé. (Ferri, 2020)

     L’iperattivazione del locus coeruleus, connessa con il panico e l’angoscia profonda, risuona quindi in un tempo interiore precedente allo sviluppo del sistema limbico, tocca uno strato sottostante a quello dello sviluppo dell’affettività e della relazionalità. Ne consegue che anche nel qui e ora un evento devastante può attivare, a livello corporeo, il sesto livello dell’addome, sollecitando la profondità di questo sistema vicino allo zero entropico e richiamandone gli schemi relazionali ed energetici.

     Per usare un’analogia, la massa di un corpo celeste deforma la trama dello spazio-tempo, piegandola attorno a sé. I corpi attorno risentono di questa curvatura e a seconda anche della propria massa deviano il loro movimento lungo la trama in modo più o meno significativo. Allo stesso modo il trauma piega e deforma lo spazio-tempo interiore. Diventa un attrattore entropico, che sequestra le altre menti di tratto e impone il suo peso sull’organizzazione generale della personalità, di fatto spostandone il funzionamento verso quelle aree presoggettive del cervello rettiliano di cui parla Ferri.

     Il lavoro sul campo con persone fortemente traumatizzate infatti mostra con regolarità queste deformazioni che si vengono a creare nella personalità e nelle percezioni.

     Le forme a priori della conoscenza, i pregiudizi formali con cui leggiamo la nostra esistenza risultano infatti modificati in maniera sostanziale dall’esperienza traumatica e influenzano i modi in cui il soggetto affetto da patologia post-traumatica legge la propria esistenza. (Vercillo, Guerra, 2019)

     Risultano prevalentemente modificati il vissuto del tempo, dello spazio, del proprio corpo, del concetto di sé, del mondo e delle relazioni umane. Ad esempio il tempo può dilatarsi, contrarsi o fermarsi per la persona, la sua direzione smarrire la linearità e diventare circolare o bloccata, la sua continuità interrotta. Il corpo può essere percepito come un luogo di pericolo oppure non essere percepito come proprio, ecc.

 

La guerra

     Le esperienze traumatiche legate alla guerra differiscono da quelle derivate da incidenti o catastrofi naturali soprattutto perché la loro origine include una volontà umana distruttiva. Un evento naturale catastrofico o un incidente vanno sicuramente a risuonare nelle aree rettiliane ma l’esclusione delle zone limbiche superiori risulta il più delle volte temporanea. Un esempio ci è stato dato dal dopo terremoto in Nepal, dove si è potuto constatare come la rete delle relazioni e degli affetti abbia avuto un ruolo fondamentale nel recupero post-traumatico. Sia l’avere vissuto l’evento con qualcuno che l’aver potuto condividere le emozioni successivamente con persone significative è stato un potente fattore di aiuto. Questa importanza vale per tutti i tipi di trauma, anche quelli legati alla guerra. Tuttavia nella guerra (e in particolare nelle violenze connesse, fino ai casi di tortura) la rete neurale limbica, connessa alle relazioni e all’affettività, spesso non viene reintegrata facilmente, proprio per la profonda sfiducia che queste esperienze generano verso le relazioni umane. In questo caso all’impotenza, alla vulnerabilità, alla difficoltà di dare un senso e un significato a ciò che è avvenuto, caratteristiche del trauma in generale, si aggiunge un collasso della capacità di relazione. Ciò è stato osservato in modo sistematico nei reduci di varie guerre, a partire dal Vietnam, fino alle osservazioni più recenti di sopravvissuti ai conflitti in Siria, in Iraq o ai rifugiati dei vari movimenti migratori.

     A queste caratteristiche si aggiungono altri elementi, di carattere solo apparentemente pratico, in realtà legati a una dimensione profondamente emozionale. Ad esempio uno dei principali problemi nel trattamento del trauma è che è impossibile elaborarlo finché le condizioni di pericolo e di allarme permangono. È una situazione che abbiamo incontrato spesso nei rifugiati o nei sopravvissuti a una guerra. Quando i rifugiati sono raccolti negli appositi campi si potrebbe pensare a una ritrovata stabilità, ma la realtà ci ha insegnato che non è così e che la dimensione di allarme e la precarietà della loro condizione permane, non permettendo di lavorare sugli eventi traumatici con la giusta distanza, che può venire solo da una situazione di sicurezza. Oltre al fatto evidente che un campo profughi non restituisce la solidità della rete sociale, va detto che le violenze vi avvengono piuttosto frequentemente. Basti pensare che più volte abbiamo rilevato che le donne evitavano di recarsi in bagno dopo il tramonto per il rischio di essere violentate. Tutto questo mantiene le persone in una condizione di allerta e di pericolo. Il lavoro in questo caso si orienta quindi piuttosto sulla stabilizzazione emozionale possibile, condizione primaria e necessaria in qualunque intervento in questo settore, e sulla creazione di gruppi di resilienza e di situazioni che la favoriscano.

     Lavorando con i rifugiati, con i sopravvissuti a guerre, migrazioni, disastri naturali si è visto che ci sono alcuni fattori di resilienza che possono essere incrementati, soprattutto ricostruendo la rete di rapporti e gli elementi di sicurezza (in senso sia letterale che più ampio). Va ricreata una situazione il più possibile vicina alla normalità che le persone avevano prima dell’evento. Per fare un esempio facile, per i bambini, oltre i gruppi di resilienza dove possano giocare ed esprimersi, è importante ricostruire la realtà scolastica. Naturalmente ci sono poi i fattori individuali di resilienza e mi sembra interessante l’ipotesi che esista una resilienza di tratto, cioè che ogni mente di tratto abbia una sua resilienza e che quindi la persona risponda anche in questo senso a seconda di quale appartamento del suo palazzo viene sollecitato dagli eventi.

 

Attivazioni possibili

     Io e i miei colleghi, tra cui in particolare Cristina Angelini, ci siamo posti il problema di quali attivazioni corporee fossero possibili e, naturalmente, utili in un contesto post-traumatico tanto particolare e quindi non comparabile con il setting che possiamo avere nel nostro studio professionale in Europa. Si profilano due ordini di problemi: il primo relativo all’appropriatezza terapeutica, un tema caro all’Analisi Reichiana Contemporanea, secondo cui l’intervento dovrebbe essere orientato e calibrato alla specifica combinazione di tratti della persona e alla sua storia, in opposizione all’idea di un trattamento standardizzato (l’aspirina per tutti); il secondo relativo alle specificità del contesto culturale e sociale in cui l’intervento viene effettuato. Entrambi questi aspetti sono problematici e hanno avuto bisogno di alcuni adattamenti.

     Va detto che io ho sempre operato in un contesto post-emergenziale e prevalentemente in Medio Oriente, sia pure con esperienze in Africa e in Nepal. Un contesto che presenta, solo per fare un esempio, una forte inibizione al contatto fisico, soprattutto tra uomini e donne. Inoltre l’uso di un setting che comprenda un lettino su cui il paziente possa sdraiarsi è molto lontano da come viene interpretata la psicoterapia o in generale gli interventi psicologici nell’area.  Anni fa, dovendo scegliere degli interventi corporei da introdurre nel lavoro in Siria e in Giordania, decidemmo di puntare sul grounding e sull’attivazione del “naso cielo a oggetto stabile”, essendo entrambi interventi, se opportunamente utilizzati, in grado di favorire la stabilizzazione.

     Ecco come Ferri descrive questa attivazione:

L’analista è fermo con la penna-luce, dietro la persona, sulla perpendicolare della glabella [la concavità tra la fronte e il naso] ad una distanza di 30-40 cm. L’analizzata, distesa sul lettino con le gambe piegate, sperimenta attivamente la reciprocità della relazione: si muove ocularmente, raggiunge l’oggetto, torna su di Sé sul proprio naso e da Sé torna sull’oggetto, per sottolineare l’individuazione, il qui e là, il movimento possibile, ma soprattutto il ri-prendersi e/o il ri-portarsi su di sé “in presenza dell’altro che c’è, stabile, luminoso e sostenente tale pattern!

L’attivazione corporea del “naso cielo ad oggetto stabile” costituisce un acting di grandissimo rango neghentropico. (Ferri, 2020)

     L’attivazione in particolare è stata adattata al contesto in cui veniva applicata: invece di essere sdraiata sul lettino la persona era seduta e la luce posta a una distanza maggiore. Anche alcuni esercizi di grounding sono stati adattati al tipo di abbigliamento e di possibilità limitata di contatto delle persone. Entrambi i tipi di intervento hanno comunque avuto numerosi riscontri positivi e sono stati anche riproposti dagli psicologi locali ai loro pazienti.

     Data la difficoltà ad avere le condizioni per un intervento prolungato nel tempo è stato spesso necessario integrare l’approccio psicocorporeo con altri strumenti. In particolare sono stati utilizzati elementi di psicoeducazione, l’EMDR, la Mindfulness e la narrative therapy. Nell’utilizzo di questi strumenti non è comunque mai mancata l’attenzione e la sottolineatura del radicamento delle emozioni e dei vissuti nel corpo.

     Quali prospettive ci sono rispetto a quello che l’Analisi Reichiana Contemporanea può dare in simili contesti? Abbiamo già detto che sul piano teorico ci aiuta a leggere quello che avviene negli individui e nei gruppi di fronte a eventi del genere, ma cosa si può fare sul piano operativo? Questo secondo aspetto è stato fino a questo momento solo abbozzato e per ora il contesto ha permesso solo l’introduzione di interventi mirati prevalentemente alla stabilizzazione e al rafforzamento del senso di sé. Ed è in particolare su questo rafforzamento che io credo sia possibile introdurre in futuro qualche altra attivazione, sia pure adattandola alle condizioni sociali e culturali del luogo.

 

Che cosa succede alla goccia?

     Ho detto all’inizio che lavorare in contesti difficili come quelli citati è un po’ come portare una goccia d’acqua attraverso il deserto. Ma che fine fa quella goccia?

M., attraverso l’aiuto di Hala, ora sta meglio e aiuta altre persone sopravvissute alla tortura a ritrovarsi. 

D., una donna che ha subìto uno stupro di gruppo e che non riusciva più a dormire, ora ci riesce.

     La guerra ci angoscia. Ma ogni volta che riusciamo a far arrivare quella goccia nel cuore di una persona possiamo sentire anche il nostro cuore aprirsi. Sentiamo che il nostro sforzo non è stato vano. Riusciamo a scorgere nel buio la fiammella di una luce che per quanto piccola resiste con la forza della vita stessa e ci aiuta a proseguire il cammino.

 

Traduzione dell'autore da Contemporary Reichian Analysis and War Trauma in International Body Psychotherapy Journal, Volume 21, Number 2, Winter 2023.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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[*]Psicologo, Psicoterapeuta. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Domodossola, 29. 00183 Roma.

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