IL SENSO DELLA DISTANZA
THE SENSE OF DISTANCE
Lucilla Musatti[*]
10.57613/SIAR64
Abstract
Si apre una riflessione sui problemi della nuova didattica, sia in presenza che a distanza, imposta dalla pandemia, nell’ottica della relazione educativa tra insegnanti e alunni.
Quali aspetti della scuola possono essere considerati insostituibili? Qual è la distanza davvero importante da misurare tra un adulto e un bambino? Come si modificano i contenuti dello scambio e i ruoli?
Alcuni spunti provengono da un gruppo di insegnanti impegnate nella formazione che ragionano sulle difficoltà e le risorse della loro esperienza didattica.
Parole chiave
Didattica – presenza e distanza – relazione educativa – confini spaziali e temporali – pensieri ed emozioni.
Abstract
An insight on the problems of the new teaching, both in presence and at a distance, imposed by the pandemic, with a focus on the educational relationship between teachers and pupils.
What aspects of the school can be considered irreplaceable? Which is the distance that makes a difference between an adult and a child ? How are the contents of the exchange and the roles changed with the distance learning?
Some cause for reflection come from a group of teachers involved in training who consider the difficulties and resources of their teaching experience.
Key words
Didactics - presence and distance - relational education - spatial and temporal boundaries - thoughts and emotions
La chiusura delle scuole durante la prima e più acuta fase della pandemia ha creato uno scenario inaspettato. Milioni di bambini e ragazzi a casa, gli edifici deserti, maestri e professori sulla breccia di una didattica a distanza tutta da scoprire, inventare e adattare alle nuove esigenze sociali. Una bolla macroscopica che conteneva tutti i problemi nuovi e antichi, dall’edilizia scolastica alla formazione dei docenti, dalla numerosità delle classi ai contenuti dell’insegnamento, dai criteri di valutazione all’uso delle tecnologie informatiche.
Tutti problemi che da quel momento non possono più essere ignorati. Ma soprattutto l’assenza forzata dalla vita dei bambini e dei ragazzi ha portato alla luce una verità indiscutibile: la scuola serve, serve ai piccoli e serve ai grandi, serve alla crescita.
Che fosse obbligatoria almeno fino a una certa età lo sapevamo, che fosse formativa lo speravamo, che fosse utile era una consapevolezza radicata che sembrava non poter essere messa in discussione da niente e da nessuno. Eppure la scuola si è fermata per mesi e la sua mancanza ha generato un vuoto difficile da colmare allora e complesso da elaborare ancora oggi in una fase di grande incertezza sul futuro, di decisioni organizzative che spesso si rivelano contraddittorie e rischiose.
Al di là delle riflessioni sulla qualità della didattica in presenza o a distanza, sulle scelte educative che garantiscono il mantenimento dei legami all’interno del contesto scolastico reale o virtuale, sugli esiti inevitabili di questo sconvolgimento sociale per un’intera generazione di bambini e ragazzi, possiamo enucleare alcune domande basilari su cui provare a ragionare.
- A che cosa serve veramente la scuola, ovvero qual è la sua funzione veramente insostituibile?
- Qual è la vera distanza da riempire (o da mantenere) tra un adulto e un bambino che non può essere misurata con il metro?
- Quali confini spaziali e temporali sono stati infranti dalla necessità del distanziamento e dalla possibile intrusione a ogni ora del giorno di una presenza virtuale?
- Che differenza c’è tra la relazione che si instaura a scuola tra un insegnante e un bambino e tra un insegnante e il gruppo, e quella che si crea attraverso lo schermo di un computer?
A scuola si va per stare con i coetanei, per apprendere regole di vita e di comportamento, per ascoltare un maestro o una maestra che ci guida nei percorsi di conoscenza e di scoperta del mondo, per imparare a imparare e a diventare autonomi. Ma tutto questo è preziosamente vero se avviene insieme agli altri, se si confronta con ciò che gli altri pensano, esprimono e agiscono, se si modifica in base a ciò che gli altri chiedono e rispondono, se si trasforma attraverso una condivisa esperienza quotidiana. È vero se giorno per giorno, a scuola, si costruisce un pensiero e un sentire comuni all’interno dei quali riconoscere l’individualità di ciascuno.
Ciò che è insostituibile è dunque la forza del processo collettivo, non solo per quanto riguarda la capacità dei bambini di connettere le idee in un circuito funzionante, ma soprattutto per quella possibilità unica di trasformare la somma di tutti i percorsi individuali in un nuovo apprendimento dalle specifiche caratteristiche cognitive, emotive e sociali.
Senza la scuola, senza quel contesto che mi permette di sperimentare un continuo scambio diretto, come faccio a ritrovare gli altri nelle diverse fasi di costruzione del pensiero e del sentire comuni? Come faccio a riconoscere quale nuovo apprendimento, o quale frammento del percorso è solo mio e quale è del gruppo, in una realtà nella quale è più difficile stabilire, nessi, riferimenti, vere appartenenze?
Se, come le tessere di un mosaico, è anche attraverso il riconoscimento della propria presenza e del proprio contributo all’interno di un gruppo che passa il processo di costruzione dell’identità del bambino, la scuola ha di fatto una funzione insostituibile.
A scuola si usano gesti e parole per stare insieme, per comunicare intenzioni e richieste, per comprendere e condividere comportamenti ed emozioni; la vicinanza fisica tra bambini e insegnanti si rarefa progressivamente con il passare dall’infanzia all’adolescenza mentre aumenta la distanza necessaria a mantenere i ruoli sociali.
È una distanza che può essere modificata dal contesto, dal momento, dalle caratteristiche di personalità degli interagenti, è una distanza che può essere resa più o meno intensa dai contenuti affettivi e dagli scopi educativi, ma è comunque una distanza indispensabile alla crescita e al mantenimento di un equilibrio nel rapporto tra grandi e piccoli, tra chi ha il compito di educare e chi ha il diritto di essere accolto e accompagnato nel suo sviluppo.
Ma questa non è certo la distanza che il timore di un contagio impone, non è quantificabile con una unità di misura convenzionale, comunque non può ridursi a un’entità soltanto fisica, ma la necessità di concretizzarne la presenza crea non poche confusioni tra ciò che è e ciò che rappresenta. Non è mai facile per un’insegnante mantenere il proprio ruolo in modo coerente attraverso le tante variabili che il rapporto con i bambini/ragazzi presenta, non è facile svolgere in modo non conflittuale i diversi aspetti della funzione educativa, intrecciando necessità affettive, obiettivi normativi, traguardi di valutazione. Non è facile accogliere senza diventare troppo vulnerabili, pretendere senza allontanare l’altro, impedire che una eccessiva condivisione emotiva annulli i limiti senza che ciò sì trasformi in una impossibilità ad avvicinarsi all’altro.
In questa fase di oscillazione tra presenza/assenza della scuola si tratta quindi, da una parte, di riempire il vuoto che la perdita del rapporto quotidiano ha creato e il distanziamento sociale ha imposto, dall’altra di garantire quella distanza che permette al bambino di percepire la capacità di contenimento dell’adulto e all’insegnante di esercitare il proprio ruolo.
Lo schermo del computer dietro e davanti al quale si svolge la didattica a distanza sembra incarnare un paradosso: quel confine così concreto e stabile che impedisce di avvicinarsi e toccarsi sembra rappresentare la rottura di ogni confine tra due mondi, quello della scuola e quello della casa, fino a oggi separati per definizione.
Molto è stato detto sulla difficoltà di piccoli e grandi ad accettare che il computer, o meglio gli sguardi veicolati dal computer, entrassero nella dimensione più privata svelando l’intimità del proprio contesto ambientale e accendendo i riflettori su interazioni quotidiane fino a quel momento riservate alla sfera più ristretta.
Molto è stato detto anche sulla difficoltà di fare i conti con un tempo dedicato alla didattica a distanza percepito sempre come troppo ridotto rispetto alla scuola in presenza e contemporaneamente così dilatato da diventare troppo spesso invasivo, un tempo che finisce per inserirsi in modo anomalo nello scorrere delle normali routine familiari e che sembra non avere più limiti nello scambio a tutte le ore di messaggi da ambo le parti, nella inconsapevole pretesa che l’altro sia sempre disponibile poiché sappiamo dove trovarlo e possiamo raggiungerlo.
Come se lo svanire dei confini spaziali e temporali lasciasse ogni interlocutore disorientato sulla possibilità di collocare l’altro in un tempo e in un luogo definiti non solo dalla presenza reale quanto piuttosto dal suo ruolo.
Questo sembra sottendere un problema più profondo legato al timore che una perdita dei confini temporali e spaziali nella relazione coincida anche con una perdita dei confini interiori, sia per quanto riguarda la capacità di esprimere e arginare le proprie emozioni, sia per quanto riguarda la possibilità di comprendere e arginare le emozioni dell’altro. In altre parole, sia per l’adulto che per il bambino, il rischio è che la confusione tra limiti reali e limiti virtuali coincida con la confusione su cosa mostrare o nascondere di se stessi, su cosa soffermarsi o tralasciare dell’altro.
Inevitabilmente, non potersi incontrare in presenza modifica le caratteristiche della relazione tra insegnante e bambino e insegnante e gruppo, in termini di contenuti e di modalità espressive, in termini di obiettivi educativi e di investimento sociale. Ma se proviamo a guardare il problema della qualità della relazione da un punto di vista più legato alla sfera emotiva, possiamo declinarlo attraverso alcune domande.
Che cosa si può esprimere o tacere, quando non ci si guarda direttamente negli occhi e non si può utilizzare il linguaggio non verbale per accompagnare ciò che si vuole dire e per comprendere meglio ciò che gli altri dicono?
E se le parole e i silenzi fossero più tangibili e pesassero di più dietro lo schermo? E se le parole e i silenzi cambiassero significato quando si svolgono nell’atmosfera rarefatta di un collegamento online?
A scuola si è in tanti, per definizione, e tante sono le interazioni che possono essere attivate, tessute, coltivate. Che cosa accade invece quando, nella didattica a distanza, ogni bambino è una entità singola di fronte allo schermo e, se viene organizzata una piattaforma, si trova a dover gestire una rete di scambi molto particolare.
Non è facile, infatti, interagire in una situazione nella quale le comunicazioni sono determinate dagli spazi di tempo concessi da un incontro dove le regole del come parlare, a chi rivolgersi, chi ascoltare sono rigide e spesso troppo dure per essere accettate da un bambino: non ci si può nascondere dietro un compagno, non si può confondersi nella confusione, non si può sfuggire allo sguardo di tutti, non si può in diretta differenziare le modalità comunicative con i diversi interlocutori.
La complessità degli scambi online può essere forse letta con più chiarezza alla luce di un’analisi di quali sono le componenti che caratterizzano la rilevanza e l’incisività di uno scambio. In altre parole, quali sono i canali attraverso cui, quando si sta tutti insieme a scuola, passano quei contenuti emotivi che rendono il rapporto tra pari vitale e significativo? Come si svolge il gioco delle scelte, degli incontri e degli scontri, delle alleanze che giorno per giorno animano la vita sociale di una classe, in una realtà frammentata nello spazio e nel tempo come quella virtuale?
Per chiudere le brevi riflessioni aperte all’inizio, varrebbe la pena chiedersi quali aspetti della relazione educativa possono essere rafforzati in un contesto così faticoso come quello imposto dalla continua necessità di tornare, almeno a fasi alterne, al distanziamento fisico e di rivedere contenuti e traguardi della programmazione. Da un’esperienza di formazione con un gruppo di insegnanti impegnate nella ripresa delle attività didattiche sia a distanza che in presenza sono emerse alcune interessanti considerazioni:
“Quale deve essere oggi il nostro focus? In questo periodo i bambini non sono più al centro, al centro c’è il virus.”
“La mascherina è diventato un elemento così forte che l’altro giorno quando ho chiesto di rappresentare il compagno che avevano davanti, un bambino mi ha chiesto: devo disegnarlo con o senza mascherina?”
“Dobbiamo spostarci da quello che i bambini e i ragazzi hanno perso a quello che hanno acquisito sul piano delle esperienze emotive.”
“Oggi gli adolescenti sono come Atlante con il mondo sulle spalle.”
Rifocalizzare lo sguardo sui bambini, spostare l’ottica dalle perdite alle conquiste, fare leva sulle energie più positive che sono in grado di attivare, accompagnarli nell’andare oltre la mascherina alla ricerca dell’altro e aiutarli a recuperare nuove potenzialità trasformative sono sicuramente alcune variabili che possono contribuire a rendere costruttiva la relazione, anche se non sostenuta dalla presenza.
Ma è indubbio che il compito educativo assume oggi forme e significati che vanno ben oltre ciò che ogni insegnante si trova normalmente ad affrontare durante il proprio percorso e che può sperimentare con maggiore o minore coinvolgimento emotivo, maggiore o minore attenzione psicologica, maggiore o minore investimento intellettuale.
Un’insegnante chiede: “Questi di oggi saranno la generazione del Covid?”
Qual è la paura reale degli adulti nei confronti di questa generazione sulle cui spalle pesa la consapevolezza di un prima e un dopo?
Che cosa comporta, in termini di funzioni e obiettivi educativi, fare i conti con lo smisurato aumento di regole e divieti a cui vengono sottoposti oggi i bambini e i ragazzi?
Come aiutarli a fronteggiare la fatica del dover essere e il peso di una forte responsabilità sociale, quando gli stessi adulti non sanno come prefigurarsi il futuro più prossimo?
Con quali parole, con quali gesti, attraverso quali significati elaboriamo con loro la paura della malattia e della morte che inevitabilmente, anche se spesso non in modo esplicito, grava sullo svolgersi della vita quotidiana?
Tentare di dare, se non una risposta, almeno uno spazio di riflessione a queste domande dà la dimensione della complessità del problema, che non può e non deve ridursi a decidere in quale tempo e in quale spazio svolgere la relazione educativa. Sono domande che sottendono una trasformazione importante nel rapporto tra un adulto e un bambino/ragazzo che cresce con il mondo sulle spalle e ha tutto il diritto di essere sostenuto, anche a distanza se ciò si rende necessario, una trasformazione che segnerà un prima e un dopo e che potrebbe favorire una riformulazione significativa di obiettivi scolastici e sociali.
Bibliografia
Bruner, J. (2000), La cultura dell’educazione. Milano: Feltrinelli.
Kanizsa, S., Zaninelli, F. L., a cura di (2020), La vita a scuola. Milano: Raffaello Cortina. Lingiardi, V. (2019), Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri. Milano: Utet.
Mazzoncini, B., Musatti, L. (2005), La strada maestra. I disturbi dell’apprendimento e la formazione degli insegnanti. Roma: Carocci.
Schaffer, H. R. (1998), Lo sviluppo sociale del bambino. Milano: Raffaello Cortina.
[*] Lucilla Musatti, psicologa dell'età evolutiva, formatrice Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. www.lucillamusatti.wordpress.com