MA IL NOSTRO è SOLO IL TEMPO DELLA MODERNITà LIQUIDA?
Marcello Mannella*
Negli ultimi decenni del ‘900, la società occidentale è entrata in una fase diversa della sua storia, variamente definita come postindustriale, postfordista o postmoderna. Decisive sono state le trasformazioni nel mondo dell’informazione. Lo sviluppo della telematica – la sinergia di satelliti, televisione, computer – non soltanto ha favorito la crescita dell’economia, ma ha fatto si che l’informazione diventasse la più importante delle attività produttive.
Un elemento di assoluta novità è rappresentato dal fatto che mentre l’informazione nella società industriale trasmetteva messaggi standardizzati, la telematica rende possibile oggi la diffusione di informazioni mirate, rivolte a segmenti differenziati di consumatori. Nella società postindustriale la produzione non è più pesante, rigidamente pianificata dall’alto, ma leggera e flessibile, capace di offrire beni personalizzati prodotti in piccole quantità e per un breve periodo. Monitorare costantemente le tendenze del mercato è allora per le aziende di vitale importanza.[1]
L’affermazione della produzione flessibile ha comportato decisivi cambiamenti nel mondo del lavoro. Essa richiede flessibilità lavorativa - non si lavora nella stessa azienda per molto tempo e si cambia spesso mansione - ed impone una molteplicità di forme dei rapporti contrattuali: a tempo determinato, part-time, autonome. Alle condizioni di lavoro meno rigide e uniformate corrispondono generalmente la precarizzazione del lavoro e livelli retributivi più bassi. Lo scadimento delle condizioni di lavoro è anche conseguenza della globalizzazione del mercato, altro fondamentale aspetto della società postindustriale.
Ai mutamenti del mondo economico si affiancano le trasformazioni - ugualmente decisive – sul piano politico, culturale e dei comportamenti: la separazione fra potere e politica, l’indebolimento dello stato nazione e delle culture nazionali che favorisce la riscoperta delle culture etniche o regionali; la crisi dei partiti politici, dei sindacati e lo smantellamento dello stato sociale; la nascita in rete di movimenti spontanei, fluidi e intorno a specifici problemi ed obbiettivi; l’affermazione di stili di vita individualisti.
In un contesto sociale plurale, fluido, cangiante, è giocoforza che anche la concezione dell’identità sia intesa diversamente e abbia caratteri particolari. Nella società solida moderna, il sé era concepito come unitario, armonico, stabile, definito una volta per tutte; oggi assistiamo invece alla realtà di identità leggere, multiple, situazionali, contraddittorie.
Il pericolo è che le nostre personalità manchino di un centro unificatore, che vadano incontro alla frammentazione, o che, nel migliore dei casi, risultino appena accennate o incompiute.
Bauman ha efficacemente definito modernità liquida (Bauman, 2011) il nostro tempo. Caratterizzato dalla fluidificazione della comunità politica, delle istituzioni, del senso di appartenenza, delle relazioni interpersonali, è un tempo il nostro che non solo non ne avverte il bisogno, ma ha addirittura dimenticato – perché fuori del suo orizzonte mentale - la possibilità di un’azione comune, di perseguire obbiettivi ideali comuni. E’ l’epoca del trionfo dell’individualismo, della dimensione privata di contro a quella pubblica, del consumatore sul produttore.
Nel tempo della modernità liquida lo stile di vita non può che essere liquido esso stesso.
“La vita liquida è una vita di consumi. Essa marchia il mondo e ogni suo frammento, animato e inanimato, come oggetti di consumo: vale a dire oggetti che perdono la propria utilità […] man mano che vengono usati. […] Gli oggetti di consumo hanno una limitata aspettativa di vita utile, e una volta superato tale limite diventano inadatti al consumo; e, poiché ‘poter essere consumati’ è la sola caratteristica che ne definisca la funzione, essi diventano inadatti a qualsiasi cosa: inutili, insomma.” (Bauman, 2009, p. XVII).
“Lo smaltimento dei rifiuti è perciò una delle due principali sfide che la vita liquida ha di fronte; l’altra riguarda il rischio di finire fra i rifiuti.” (Ibidem, p.XVIII).
Quest’ultima prospettiva è avvertita come tutt’altro che remota; bisogna pertanto essere vigili, non attardarsi o restare attaccati a qualcosa, occorre essere svelti a procacciarsi l’ultimo gadget proposto dal mercato, pena l’angosciosa esperienza della perdita della propria identità. La ricerca del consumo dà l’illusione di mettersi al riparo dalle incertezze e di riempire i vuoti che caratterizzano le nostre vite. Nel nostro tempo si è solo in quanto si consuma, e più si consuma, più aumenta la percezione illusoria della potenza del vivere.
Consumare per consumare è diventato un imperativo di vitale importanza in un sistema economico fondato sull’assurda convinzione che sia possibile aumentare all’infinito la produzione, non tenendo conto di alcun vincolo, né ecologico – come è possibile una produzione infinita in un mondo di risorse finite? – né morale perché ogni momento del nostro vivere – anche nei suoi aspetti più intimi e delicati – è reso pubblico, livellato, banalizzato, violentato attraverso format adatti al consumo.
Si assiste pertanto al paradosso che la tendenza a facilitare e a sveltire le incombenze del vivere quotidiano con macchine, gadget e sistemi elettronici ed informatici sempre più sofisticati, non comporta uno stile di vita meno frenetico (pensiamo al fenomeno del multitasking), non risponde all’esigenza di dedicarsi alla cura di sé, ma risponde ad una logica economica distorta. Si tratta di avere più tempo per poter ulteriormente consumare.
Tutto ciò fa delle nostre vite delle vite di corsa (Bauman, 2009) e – operando un vero e proprio furto del tempo interno – ci impedisce di sostare presso di sé, di disporre in una sequenza significativa le proprie esperienze e di costruire così – faticosamente, ma proprio per questo creativamente – la propria modalità di essere-nel-mondo.
Il nostro tempo necessita, dunque, di un ripensamento complessivo circa le finalità dell’uomo e del suo posto nell’esistenza.
Per dirla tutta però, occorre riconoscere che tale ripensamento è esso stesso preparato e reso possibile dalle particolarità del nostro tempo.
Se è vero infatti che la società contemporanea presenta i caratteri della liquidità - con tutti i pericoli che abbiamo evidenziato - è anche vero che è proprio l’esperienza della liquefazione dei discorsi e dei valori che per lungo tempo hanno caratterizzato la società solida moderna a porre le condizioni per l’affermazione di una nuova forma di civiltà.
La causa della loro liquefazione è da ricercarsi negli stessi presupposti e finalità di quella società: “La causa originaria della liquefazione dei corpi solidi non è stata l’avversione alla solidità in quanto tale, ma l’insoddisfazione per il grado di solidità esistente/tramandata: semplicemente, questa non era ritenuta abbastanza solida (e cioè resistente/immune al cambiamento) rispetto agli standart delle forze della modernità, ossessionate dall’ordine e intente a costruire compulsivamente ordine” (Bauman, 2011, p.VII).
Caduti, allora, i discorsi forti[2] circa la superiorità della civiltà occidentale, del primato della ragione scientifica e tecnologica, dissoltesi le illusioni del costante progresso, dell’utopia dell’emancipazione e liberazione dell’umanità - miti onnicomprensivi che avevano preteso di uniformare le esperienze – si danno oggi le condizioni per l’affermazione di una società improntata ai valori deboli della tolleranza, al principio di differenza, aperta al riconoscimento delle diversità etniche, culturali, religiose, di genere.
Fatto nuovo nella storia, l’aspirazione alla libertà oggi non riguarda più soltanto le maggioranze – i popoli, le classi, i generi - ma le minoranze e addirittura i singoli. Il nostro, insomma, è anche il tempo in cui è possibile che l’essere nel mondo di ciascuno - le scelte politiche, sociali, affettive, le identità di genere, i rapporti fra i sessi, il modo di vivere la coppia e di intendere la funzione genitoriale – non accada più sotto il pungolo di imperativi normativi.
“Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità ‘locali’ – minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche – che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci fosse una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti. Questo processo di liberazione delle differenze, detto di passaggio, non è necessariamente l’abbandono di ogni regola, la manifestazione bruta dell’immediatezza: anche i dialetti hanno una grammatica e una sintassi, e anzi solo quando acquistano dignità e visibilità scoprono la propria grammatica.” (Vattimo, 1989, p.17).
Da qui la tendenza a decostruire i saperi, a delegittimare le autorità, le norme, e la messa in atto di una serie di pratiche volte alla frammentazione, all’ibridazione delle esperienze che si dipanano in una molteplicità di direzioni.
E sono proprio quei mezzi di informazione di massa che condizionano quotidianamente le nostre esistenze improntandole ad uno stile di vita superficiale e frenetico, a dare voce alle minoranze, a quanti si avvertono eccentrici rispetto ai discorsi, ai valori e alle identità da sempre riconosciute.
I nuovi media hanno consentito la proliferazione dei discorsi, hanno dato voce alla molteplicità dei punti di vista.
“Ebbene, io ritengo invece che il termine postmoderno abbia un senso; e che questo senso sia legato al fatto che la società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata, la società dei mass media.” (Ibidem, p.7) .
L’affermazione dei mass media non rende tale società più trasparente, neanche più consapevole o più illuminata, anzi persino più complessa e caotica, ma “proprio in questo relativo ‘caos’ risiedono le nostre speranze di emancipazione.”(ibidem, p.11)[3]
Pertanto, mentre Adorno e Horkheimer (1966) paventavano nel fenomeno della comunicazione di massa l’esito inevitabile del controllo totalitario delle coscienze, per i postmoderni proprio la diffusione dei mass media con la moltiplicazione dei centri di informazione è a garanzia del pensiero plurale.
Il postmoderno si muove in un orizzonte di pensiero ermeneutico e costruttivista ed afferma che non esiste nessuna verità da svelare, nessun territorio da descrivere, ma soltanto mappe di mappe, soltanto costruzioni della realtà, che possono essere molteplici e coesistere. Non c’è allora da stupirsi se uno dei simboli della nostra epoca sia la torre di Babele, come espressione della pluralità dei giochi linguistici.
Rifiutando le categorie forti e le legittimazioni assolute, il postmoderno realizza il passaggio da un pensiero forte ad un pensiero debole, da un paradigma riduzionista ad un paradigma della complessità. La proposizione di una razionalità debole ci mette al riparo da ogni atteggiamento gerarchizzante e di dominio e apre al riconoscimento dell’altro. La consapevolezza del carattere aperto, decentrato, fluido del mondo sociale e culturale, della relatività e provvisorietà dei valori, l’accettazione dell’incertezza come aspetto costitutivo dell’esistenza, sono giudicate la cifra della raggiunta maturità dell’uomo.
Se pure, dunque, il nostro tempo presenta elementi di dispersione e dissipazione, e di grande sofferenza sociale ed economica, esso è però anche carico di possibilità di emancipazione e liberazione, per cui la soluzione dei mali che lo affliggono non può consistere semplicisticamente e ingenuamente nel rivolgere il nostro sguardo al passato.[4]
L’eccezionalità del nostro tempo è tutta qui, nella radicale divergenza delle sue possibilità. Da una parte il rischio, assai concreto, che i principi di tolleranza e di differenza si risolvano nel disinteresse, nell’accettazione apatica di qualsiasi affermazione o posizione, che la relatività dei valori scada nella chiusura individualistica, nel rifiuto di ogni regola o norma, che si affermi la filosofia del tutto è lecito, che insomma i suoi esiti diano luogo alla dispersione delle volontà e degli intenti. Dall’altra, la possibilità – ben più difficile ed impegnativa – che si realizzi uno scatto evolutivo della mente umana che porti all’affermazione di nuove forme dell’agire morale e politico che, pur fondate sui principi della differenza e della pluralità, mettano capo ad un agire comunicativo.
L’umanità si trova oggi in prossimità di un punto di biforcazione i cui esiti sono al momento imprevedibili. L’auspicio è che si possa pervenire ad una svolta epocale con l’affermazione di una nuova consapevolezza.
Una tale svolta, però, non può accadere spontaneamente e inconsapevolmente – una rivoluzione coscienziale spontanea e inconsapevole è una contraddizione in termini. Un ruolo decisivo può e deve essere svolto da una nuova pedagogia, radicalmente diversa da quella storicamente praticata.[5] E’ necessaria una prassi pedagogica che consideri l’essere dell’uomo come totalità integrata di corpo e di mente, che fornisca ai bambini e agli adolescenti l’affezione all’osservazione di sé, che favorisca la costruzione di personalità salde e insieme aperte e fluide, in grado di orientarsi nella complessità del nostro mondo.
Negli ultimi decenni stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione paradigmatica volta alla riconsiderazione del corpo. Filosofi, antropologi, psicologi, psicoterapeuti, medici, biologi, neuroscienziati vi pongono l’attenzione e ne evidenziano la fondamentale importanza per la vita dell’uomo.[6]
Se soltanto fino a poco tempo fa il modello dominante nelle scienze della mente era quello dell’opposizione fra funzioni mentali e funzioni corporee, oggi questo dissidio si è ricomposto. Corpo e mente non sono né in opposizione né separati, ma sono da sempre profondamente embricati e la considerazione del primo come realtà biologica sottoposta alle ferree leggi del meccanicismo - e della genetica oggi - di contro alla spiritualità libera e cosciente della mente, non ha più ragion d’essere.
Il dualismo cartesiano ha lasciato il posto ad una diversa consapevolezza caratterizzata da un movimento duplice e convergente.
La mente ha perso la sua nobiltà spirituale ed è stata progressivamente incorporata, considerata il frutto di un lungo processo evolutivo che, a partire da una mente biologica, è pervenuta progressivamente alla coscienza e all’autocoscienza.
Il corpo, d’altra parte, non è più considerato Korper, mero sostrato materiale che media le volizioni della mente rispetto al mondo, ma realtà processuale implicata direttamente nei complessi processi del vivere, non solo di quelli immediatamente biologici.
Damasio ha mostrato l’origine corporea della mente. A suo parere, la mente è una realtà pluristratificata che a partire da una base inequivocabilmente biologica perviene progressivamente alla formazioni di strutture anatomiche più complesse fino alla comparsa di una mente autocosciente: “Il corpo è la roccia su cui è costruito il proto-sé, mentre quest’ultimo è il perno intorno al quale ruota la mente dotata di coscienza.” (Damasio, 2010, p.35).
Educati fin da piccolissimi alla consapevolezza corporea e al sentire – all’integrazione del corpomente – alla regolazione emotiva,[7] e non soltanto all’acquisizione di conoscenze, competenze e abilità, essi saranno in grado di non soggiacere alle spinte dissipative che attraversano la nostra società, di sviluppare una forte attitudine empatica e il pensiero/sentimento di appartenere al corpo comune del genere umano e della terra. Soltanto così saranno possibili condotte esistenziali e morali coerenti, fondate sull’autonomia del giudizio, sull’acquisizione e sull’interiorizzazione del senso della misura e del limite.
L’urgenza del nostro tempo risiede dunque nella definizione di un nuovo paradigma pedagogico che proceda oltre la visione antropologica cartesiana che ha dominato per tanto tempo la nostra cultura: l’uomo concepito come duplicità irrisolvibile di mente e di corpo - libera e consapevole la prima perché spirituale, meccanico e necessitato il secondo perché materiale.
E’ necessaria una pedagogia che ricomponga quella epocale frattura che è a fondamento di tutte le altre scissioni e opposizioni – cielo/terra, natura/cultura, maschile/femminile, soggetto/oggetto, io/altri – che hanno tradizionalmente caratterizzato la storia della cultura occidentale e che sul piano psicologico ha comportato la realtà di personalità parziali, scisse, reattive.
Infatti, una volta affermata l’irriducibile alterità fra il corpo e la mente e giudicato il primo come realtà puramente biologica sottoposta alla necessità e alla rigidità delle leggi naturali, la cultura pedagogica, medica e psicologica occidentale ha finito col nutrire verso gli automatismi corporei, gli impulsi, le emozioni e i sentimenti, una pronunciata diffidenza, ha escluso ogni possibilità di trasformarle e di regolarle ed è pervenuta a concepire i rapporti fra mente e corpo in termini di controllo e di dominio.
Una tale impostazione pedagogica sortisce l’inevitabile risultato di mettere gli uni contro gli altri i diversi aspetti del nostro sé e di fare delle nostre personalità un campo di forze in perenne contrasto: emozioni e sentimenti contrastanti, oppure di contro o scissi dal pensiero; o caratterizzate dal dissidio della volontà con le abitudini mentali e corporee. Tutte le nostre energie, allora, saranno impegnate a mantenere integro il nostro sé, ad impedire che vada in frantumi o che sia preda del caos.
Nel migliore dei casi si assiste alla definizione di personalità parziali, rigide, egocentriche, rabbiose, attraversate dal malanimo, che incapaci di essere-nel-mondo per intero e in dissidio con se stesse, assumono verso gli altri e la vita atteggiamenti aggressivi e rivendicativi. Tali personalità saranno comunque labili, incerte, incapaci di dare una direzione personale e creativa alla propria vita e, pertanto, insoddisfatte si lasceranno facilmente sedurre dalle suggestioni a buon mercato della società del consumo.
L’approccio globale, biopsichico, alla persona è condizione imprescindibile affinché l’umanità possa elevarsi ad una nuova e più alta consapevolezza che le consenta di realizzare un diverso modo di essere nel mondo. L’integrazione del corpomente rende possibile il superamento dello stato mentale che ha fin qui caratterizzato l’umanità e che ha confinato le nostre esistenze negli asfittici spazi dell’egoicità.
Quest’ultima dà origine ad uno stile comportamentale ed esistenziale che fa centro esclusivo intorno alla propria persona. Non ci si riferisce necessariamente e primariamente ad uno stile di vita egoistico – si può essere facilmente egoici anche nell’altruismo - quanto piuttosto si intende una condizione mentale, la difficoltà cioè a pervenire ad un sentire, un pensare ed un agire universali, espressioni di un diverso stato mentale improntato al pensiero/sentimento di appartenere alla comunità sociale e umana, al tutto della natura e dell’esistenza.
Un sentire e un pensare in grado di “portare a compimento l’Umanità come comunità planetaria” (Morin, 2001, p.15) così da poter affrontare in maniera autentica ed efficace gli enormi problemi del nostro tempo.
[1]“Tutta l’attenzione si sposta dall’imposizione alla tentazione e seduzione, dalla regolazione normativa alle Pr, dalla polizia alla creazione del desiderio.” (Bauman, 2014). Il problema della sorveglianza nella società del nostro tempo non è più pertanto quello di evitare i comportamenti devianti, ma di tenere costantemente sotto controllo i flussi di informazioni. La distopia orwelliana circa un mondo governato da un’entità in grado di osservarci e di costringerci ad un pensiero unico, non ha più ragion d’essere perché non è funzionale alle finalità economiche del nostro tempo.
[2] Il postmoderno realizza l’esperienza della fine della storia nel senso della perdita di valore dei grandi discorsi – grands récits - ossia lo sgretolarsi delle prospettive ideali che, come favole per adulti, per tanto tempo hanno animato la cultura occidentale. (Lyotard, 1985). “Ognuno dei grandi racconti di emancipazione […] è stato per così dire invalidato nel suo fondamento negli ultimi cinquant’anni – Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale: ‘Auschwitz’ confuta la dottrina speculativa. Almeno questo crimine, che è reale, non è razionale. – Tutto ciò che è proletario è comunista, tutto ciò che è comunista è proletario: ‘Berlino 1953, Budapest 1956, Cecoslovacchia 1968, Polonia 1980’ (e la serie non è completa) confutano la dottrina del materialismo storico: i lavoratori insorgono contro il Partito. – Tutto ciò che è democratico viene dal popolo e va verso il popolo, e viceversa: il ‘Maggio 1968’ confuta la dottrina del liberalismo parlamentare […]. (Lyotard, 1987, p. 38).
[3] Nella nota introduttiva alla terza edizione de La società trasparente, Vattimo ha attenuato la sua fiducia nella funzione liberatrice dei media: “ E’ piuttosto un certo ottimismo circa la funzione emancipativa dei media quello che, in questi anni, si è attenuato”. (Ibidem, p. 3.).
[4] La civiltà nata in Occidente, mollando gli ormeggi con il passato, pensava di dirigersi verso un futuro di progresso all’infinito, grazie ai progressi congiunti della scienza, della ragione, della storia, dell’economia, della democrazia. Noi abbiamo compreso con Hiroshima, che la scienza era ambivalente. Abbiamo visto la ragione regredire e il delirio staliniano indossare la maschera della ragione storica; abbiamo visto che non c’erano leggi della Storia a guidare irresistibilmente verso un avvenire radioso: abbiamo visto che il trionfo della democrazia non era definitivamente assicurato in nessun posto. Abbiamo visto che lo sviluppo industriale poteva comportare devastazioni culturali e inquinamenti mortiferi. Abbiamo visto che la civiltà del benessere poteva produrre nello stesso tempo malessere. Se la modernità si definisce attraverso la fede incondizionata nel progresso, nella tecnica e nella scienza, nello sviluppo economico, allora questa modernità è morta”. (Morin, 2001, pp.2,3).
[5] “[…] per quanto limitati possano apparire i poteri del sistema educativo esistente, a sua volta irretito nei meccanismi consumistici, sopravvivono in esso sufficienti poteri trasformativi per annoverarlo tra i fattori più promettenti di tale rivoluzione.” (Bauman, 2012, p.39).
[6] Dobbiamo riconoscere a Reich il merito di aver sostenuto in ambito psicoanalitico la più completa e convinta negazione del dualismo antropologico cartesiano. E’ Reich a dichiarare l’identità funzionale di corpo e psiche; sarà lui a portare il corpo all’interno del setting analitico, non come mero testo di significati psichici, sarà lui a definire per la prima volta un intervento terapeutico fondato sul corpo, dando origine alla innovativa tradizione delle psicoterapie corporee.
[7] Si vedano C. Trevarthen, Empatia e biologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998; A. Schore, La regolazione degli affetti e la riparazione del Sé, Astrolabio, Roma, 2008; La regolazione delle emozioni, (a cura di) O. Matarazzo, V. L. Zammuner, Il Mulino, Bologna, 2009.
Bibliografia
- Bauman, Z., Lyon, D. (2014), Sesto potere, la sorveglianza nella modernità liquida. Bari: Laterza.
- Bauman, Z. (2009), Vita liquida. Bari: Laterza.
- Bauman, Z. (2009), Vite di corsa. Bologna: Il Mulino.
- Bauman, Z. (2011), Modernità liquida. Bari: Laterza.
- Bauman, Z. (2012), Conversazioni sull’educazione. Trento: Erickson.
- Damasio, A. (2010), Il sé viene alla mente. Milano: Adelphi.
- Horkheimer, M., Adorno, T. W. (1966), Dialettica dell’illuminismo. Torino: Einaudi.
- Lyotard, F. (1985), La condizione postmoderna, rapporto sul sapere. Milano:Feltrinelli.
- Lyotard, F. (1987), Il postmoderno spiegato ai bambini. Milano: Feltrinelli.
- Morin, E. (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro. Milano: Raffaello Cortina.
- Vattimo, G. (1989), La società trasparente. Milano: Garzanti.