Numero 2/2012
LA COGNIZIONE INCARNATA
Ortensia Mele*
Le scienze cognitive, vale a dire l'approccio scientifico ai tradizionali problemi della conoscenza, sono senz'altro una delle avventure di pensiero più affascinanti degli ultimi decenni del ventesimo secolo. E’ allora importante notare come agli inizi di questo nuovo secolo le scienze cognitive non solo si siano ramificate al loro interno e ibridate con altri approcci scientifici confinanti, ma soprattutto come mostrino in maniera sempre più evidente le tracce di un profondo mutamento paradigmatico. Alcune cruciali astrazioni e semplificazioni - forse utili e persino inevitabili in certe fasi del loro sviluppo - oggi risultano infatti sempre meno sostenibili sul piano teorico, e nel contempo decisamente limitanti sul piano delle applicazioni pratiche. Basato com’era su un'identificazione più o meno precisa e accurata fra apparato cognitivo umano e calcolatore digitale, il modello teorico computazionalista, che a partire dagli anni cinquanta aveva prevalso, si trova da più di un decennio in una crisi irreversibile, paradossalmente proprio a partire dal campo dell’intelligenza artificiale.
Ricorderete certamente che la fantascienza degli anni Cinquanta e il giornalismo scientifico degli anni Sessanta ci avevano fatto mirabolanti promesse di menti artificiali capaci di eguagliare e superare le prestazioni della mente umana. Perché allora perfino i migliori fra i nostri artefatti intelligenti sono oggi ancora così irrimediabilmente lontani dall’eguagliare le performances più elementari della mente umana?
Per rispondere a questa domanda e al contempo delineare la natura del cambiamento paradigmatico cui abbiamo accennato occorre, come di costume, fare un passo indietro.
Intelligenza Artificiale e modello di conoscenza
Nel trentennio ’60-’90 dello scorso secolo le vicissitudini dell'intelligenza artificiale avrebbero meritato osservatori più attenti di quanto il largo pubblico dei non addetti ai lavori sia stato. L'annuncio di una decifrazione e soprattutto di una replicabilità ormai imminente del segreto dell'intelligenza umana aveva creato grandi aspettative che però si stavano rivelando illusorie. Insieme alle ragioni per cui questo avveniva, il grande pubblico avrebbe potuto comprendere che la vera partita giocata in quegli anni fra gli scienziati implicati direttamente e indirettamente era quella intorno ad una concezione della cognizione umana troppo radicata per venire abbandonata, nonostante l’evidenza degli insuccessi concreti ai quali quel modello cognitivo conduceva. Ciò contro la cui evidenza strenuamente si lottava, era il fatto che la natura stessa della cognizione era stata fraintesa. (Non è questo lo spazio per indagare le ragioni profonde di questo fraintendimento e del suo antieconomico persistere tanto a lungo, ma certamente sarebbe illuminante farlo in altra sede.)
L’evoluzione a chiare lettere
Concepita come una sorta di congegno del ragionamento logico accompagnato da un cumulo di dati espliciti -una specie di combinazione fra una macchina logica e un archivio di informazioni- quella concezione della mente ignorava la circostanza che le menti evolvono per far accadere le cose, che la mente biologica è, anzitutto, un organo implicato nella gestione del corpo biologico, nella sua omeodinamica in funzione della sua sopravvivenza e che, oltre una certa misura, nell’economia del vivere, l’accumulo di istruzioni non è né possibile, né auspicabile perché ingombrante e inefficace. Le menti, insomma, producono per esempio i movimenti, e devono farlo in fretta: prima che il predatore ci raggiunga, o prima che la nostra preda ci sfugga.
Via alta e via bassa
Perciò le menti non sono congegni disincarnati per il ragionamento logico, non foss’altro che per il fatto che il ragionamento logico comporta il percorso di quella che oggi alcuni scienziati cognitivi chiamano via alta o lunga (vale a dire il percorso, lungo appunto, che l’elaborazione della percezione sensoriale deve fare attraverso la corteccia e i lobi prefrontali quando è oggetto di discriminazione logica). E nell’economia di decisioni la cui velocità risulta cruciale per la sopravvivenza, è invece assolutamente preferibile la via bassa o breve, cioè quella, scelta dalla nostra biologia, che collega direttamente la sensorialità con l’apparato premotorio, in modo che la fuga di fronte al predatore, o l’attacco nei confronti della preda siano fulminei. E’ così che la nostra cognizione si è evoluta e dunque, che ci piaccia o no, è così che in coloro che sono riusciti a sopravvivere, cioè in noi tutti, cognizione e corporeità siano strettamente connesse. Ed è in modo simile che anche l’apprendimento si è evoluto, come per alcuni aspetti è dimostrato dalla scoperta dei neuroni specchio, che ci permettono di cogliere per via corporea (cioè per via breve) -e non attraverso il ragionamento astratto, come la teoria della teoria erroneamente sosteneva-, le intenzioni altrui ed il significato delle azioni compiute dagli altri (Rizzolatti, Senigallia, 2006).
Quando le osserviamo, infatti, queste ultime determinano in noi la mobilitazione delle stesse aree premotorie che presiedono alla nostra realizzazione di quella stessa azione osservata. Il significato intenzionale dell’azione, dunque, si scopre essere non già il risultato dell’elaborazione di informazioni rappresentazionali. Il suo scopo è già contenuto nella configurazione posturale, nell’atteggiamento specifico di un esser pronti a, che è implicitamente assunto e condiviso da tutti i suoi attori o interpreti che siano, nel momento in cui l’azione viene osservata, preparata o eseguita.
Ma chissà quanto dovrà ancora sorprenderci il legame che stringe corpo e mente se verrà confermato quello che è ancora uno studio preliminare su casi come questo. Un paziente non riesce più a contare e a dire il nome delle proprie dita perché ha la mano gonfia e dolente per colpa di una minuscola frattura all’osso di un dito (una distrofia simpatica riflessa). Sembra un caso stupefacente di retroazione di un danno fisico che danneggia selettivamente un’area del cervello (il lobulo parietale anteriore), implicato nel contare e nel nominare le dita.
L’istruzione non paga
Come si diceva dunque, assai illuminante sarebbe stato per noi non addetti ai lavori conoscere in che modo l’Intelligenza Artificiale (I.A.)-pur accumulando insuccessi su insuccessi: “milioni di dollari andati in fumo”, dice Clarck (Clarck 1997)- si impegnava a costruire menti artificiali.
Partendo dall’idea indiscussa che la mente biologica fosse un congegno del ragionamento logico accompagnato da un cumulo di dati espliciti, essa si ostinava ad implementare i suoi robots istruendoli punto per punto. Per capire in che misura fosse perdente l’idea di poter istruire un robot fornendogli tutte le informazioni necessarie per poter compiere una determinata azione, si può fare un semplice esperimento. Coinvolgere un piccolo gruppo di persone disponibili sfidandole ad elaborare tutti gli algoritmi necessari per far sì che un sistema, dotato di mobilità e prensilità meccaniche, ma privo di qualunque conoscenza del mondo, riesca a mettere acqua in un pentolino e a riscaldarla. La quantità di dati impliciti richiesta per compiere un’azione semplice come questa è stupefacente (non la immaginiamo perché, avendo un corpo, diamo per scontata una serie enorme di dati che non abbiamo bisogno di esplicitare, perché ci sono intersoggettivamente noti provenendo dall’esperienza condivisa dell’interazione corpo-mondo).
Un falso successo
Il successo riportato dall’I.A. nel gioco degli scacchi trasse tutti in inganno. Quando una macchina intelligente fu in grado di vincere l’allora campione mondiale di scacchi, si alzarono grida di trionfo (e per alcuni di costernazione). L’euforia, però, non durò molto. Ben presto, infatti, ci si accorse che se si chiede ad una macchina debitamente istruita di compiere in uno spazio circoscritto delle azioni regolate da un numero discreto di norme fisse, in un contesto in cui tutte le azioni possibili sono regolate dalle stesse norme, non è troppo difficile che lo faccia con successo, specie se dispone, come un normale calcolatore, di una memoria meccanica potente. Ma, anche nella più elementare delle occorrenze della vita in cui veniamo a trovarci, non è questo ciò che accade, perché invece, nello spazio reale, siamo soggetti a innumerevoli variabili contesto-dipendenti, all’interno di un sistema di regole aleatorie.
Ecco in estrema sintesi quali sono le ragioni per le quali le mirabolanti promesse degli anni ‘50 sono state così miseramente disattese. E del perché oggi invece, più umilmente ma certo anche più fruttuosamente, la scienza cognitiva dell'artificiale tenta di ripartire dal basso, seguendo linee evolutive che, pur prive dell’ambizione di poterla presto copiare, mutuano dall'intelligenza umana, risultata così dipendente dall'embodiment, proprio l’aspetto che più la caratterizza e cioè la capacità di apprendere dall’esperienza dell’interazione corpo-mondo.
Ripartire dal corpo
E’ per questo che dopo una più che trentennale ricerca e la spesa di milioni di dollari, preso finalmente atto della dimostrata incapacità del modello istruttivo di riprodurre artificialmente perfino “le strategie di uno scarafaggio quando tenta di sfuggire a un predatore”(Clarck, op. cit.), l’I.A. attuale è impegnata, per esempio, nella costruzione di un robot capace di raccogliere lattine vuote in un ambiente arredato come un ufficio.
Tanto per cominciare, l’esperimento si basa sulla presa d’atto che implementare nel robot tutti gli algoritmi necessari per il riconoscimento della ... lattinità, sarebbe antieconomico e forse impossibile. Per far questo col vecchio metodo, infatti, sarebbe stato necessario istruirlo fornendolo delle descrizioni accurate di tutte le lattine di ogni tipo e genere, viste da ogni possibile angolo visuale. Per evitare una tale missione impossibile, gli scienziati I.A. hanno dunque dotato il robot di alcune semplici istruzioni, fornendolo, però, anche di un meccanismo di feed-back che gli permette di incamerare gli errori e di autocorreggersi: cioè di imparare dall’esperienza, come fa ogni essere vivente.
Un paradigma da abbandonare
Ma non si tratta solo di cognizione artificiale. L'insostenibilità del paradigma dominante ai nostri giorni emerge in molti altri esiti delle ricerche delle scienze cognitive, anche attraverso gli studi esplorativi condotti con le tecniche di brain imaging. Non sono in crisi soltanto le idee della centralizzazione o della sequenzialità delle operazioni cognitive. Sono in crisi, anche e soprattutto, le stesse direttrici teoriche fissate dalla metafora del calcolatore. L'orientamento emergente delle scienze cognitive non si limita a riconoscere carattere altamente connettivo e distribuito di tutti i processi neurali, ma arriva a rifiutare esplicitamente l'idea di un apparato cognitivo che, come pretendeva il comportamentismo, funziona secondo uno schema di input-output, stimolo-risposta. Rifiuta l'idea di informazioni preesistenti, preselezionate rispetto alla loro elaborazione, nonché l'idea di una conoscenza che, procedendo per calcoli simbolici, confezioni copie del mondo esterno. Soprattutto, rifiuta l'immagine di un conoscere astratto, privo di coloriture emozionali, sostanzialmente indipendente dall'intenzionalità, dal significato e dall'azione. Sempre di meno l'apparato cognitivo - qualunque apparato cognitivo, e quello umano in primo luogo - appare indissociabile dalle strutture materiali dalle quali è supportato; o meglio, dalle strutture nelle quali è incorporato. Oggi, dunque, le scienze della cognizione non producono e non possono produrre, un modello astratto da applicare alle singole situazioni biologiche e materiali, ma definiscono un campo di processi e di emergenze altamente contestuali. Soprattutto, la nascente direzione esplorativa delle scienze cognitive -embodied cognitive science, o scienza cognitiva incarnata- reinserisce la cognizione nella dimensione del corpo, riconosce come pertinenti, anzi ineludibili e irriducibili tutte le manifestazioni cognitive strettamente legate alla corporeità: all'emozione, all'affettività, all'intenzionalità, all'azione (Damasio, 1994 e 1999).
L’orizzonte s’allarga
Si apre così una prospettiva di ricerca amplissima e molto articolata che interessa e sta coinvolgendo campi disciplinari anche molto diversi fra loro, che vanno dalla psicologia alla medicina, dalla biologia alla psichiatria, dalla psicoanalisi all’economia ...
Purtroppo, a livello accademico, ancora latitano la pedagogia e la didattica, che invece dovrebbero essere le discipline più direttamente chiamate in causa dalla cognizione incarnata. Mentre cominciano ad affacciarsi alla ribalta sperimentazioni di base nelle quali l’insegnamento si ispira alle teorie della cognizione incarnata. Io stessa, da più di 10 anni, ho promosso e coordino una ricerca/azione di gruppo denominata Appassionata Mente - Dalla lezione al laboratorio enattivo, volta alla formazione enattiva di insegnanti, genitori, studenti.
Non è un disegno nuovo. Anzi, le scienze cognitive odierne stanno recuperando una visione della conoscenza che ha radici lontane, anche nella pedagogia e nella filosofia dell’educazione (James, Dewey, Freinet, Bruner ...). Per lo più si tratta di un recupero inconsapevole, ma talvolta, fortunatamente, è derivato da una consapevolezza profonda, generata da un'esplorazione attenta delle proprie origini e della propria tradizione. In particolare di quell'era seminale della nascita della cibernetica in cui quest'area d'indagine era identificata con l'appellativo di epistemologia sperimentale (per la formazione abbiamo avuto invece, per esempio, i LEO, Laboratori di Epistemologia Operativa di Donata Fabbri e Alberto Munari, ispirati dalle teorie della complessità). È quest'attenzione per le proprie radici, che Francisco Varela - creativo protagonista della ricerca in tanti rami delle scienze cognitive - ha sviluppato in modo esemplare. E dal quale proviene uno dei suoi apporti più significativi. Il riconoscimento e la valorizzazione della complementarietà dei punti di vista possibili sui sistemi cognitivi e la consapevolezza della necessità di non ridurre gli uni agli altri, che erano propri della cibernetica. L’altro apporto è quello di aver addditato una feconda metodologia di ricerca, da lui stesso chiamata neurofenomenologia (Varela, 1997), capace di misurarsi con il problema della conoscenza in prima persona. Già nella teoria dell’autopoiesi, sviluppata con Humberto Maturana (Maturana, Varela, 1980), Varela collegava il punto di vista interno e il punto di vista esterno ai sistemi viventi e cognitivi (Varela, Thompson, Rosh, 1991).
L’esperienza vissuta: un irrinunciabile ponte
Ora, però, la gran mole degli studi sulla coscienza ha portato alla luce l’irrinunciabilità e l’urgenza di un tale collegamento. L’esperienza in prima persona non può, ormai, più restare il problema tanto a lungo rimosso. Si tratta oggi di dotare le scienze cognitive -ma anche le scienze tout court, da sempre sostenitrici del solo punto di vista in terza persona- di un metodo di analisi e di descrizione dell’esperienza vissuta, capace di far da ponte fra questa e quanto le nuove teorie sulla cognizione sostengono e le nuove tecnologie di indagine consentono di vedere del cervello in funzione. Ed anche qui Varela, da fine epistemologo, ha saputo additare nella fenomenologia la tradizione filosofica dalla quale attingere gli strumenti metodologici necessari per un addestramento sistematico degli scienziati interessati alle scienze cognitive, per la descrizione scientifica dell’esperienza in prima persona.
Per una scienza incarnata
Optando per la moltiplicazione delle proprie prospettive sul mondo naturale, ciò che si afferma è l'idea di un sapere scientifico che rinuncia all'ideale tradizionale di un unico sistema teorico in grado di esprimere l'interezza del reale. E’ l'idea di un'intelligibilità scientifica che sa accettare la località, la parzialità, l'intrinseca inesaustività di ogni punto di vista teorico aperto sul reale. Sa accettare l'irriducibile eccedenza del reale rispetto alle capacità descrittive di qualsiasi sistema categoriale. “Sostanzialmente è l'idea di una scienza che procede mediante costruzioni, apre prospettive teoriche che non garantiscono l'accesso all'essenza della realtà, né permettono di perlustrarla in modo definitivo, ma individuano attivamente - costruiscono - nel reale oggetti definiti di ricerca, suscettibili di essere interrogati ed esplorati. [A ben guardare si tratta di una posizione scientifica intrinsecamente coerente con l’idea di conoscenza incarnata.]. Il mondo non ci si presenta nettamente diviso in sistemi, sottosistemi, ambienti e così via. Queste sono divisioni che facciamo noi in vista di vari scopi. È evidente che differenti comunità di osservatori trovino comodo dividere il mondo in modi diversi e sono interessate a diversi sistemi in diversi momenti.
È questo uno dei messaggi più profondi che Francisco Varela ha lasciato in eredità agli specialisti delle scienze cognitive: mantenere e articolare una pluralità diversificata di punti di vista teorici, perché ognuno di essi, pur producendo zone d'ombra, può illuminare le zone d'ombra generate dagli altri” (Ceruti, Damiano, 2009).
Le illustrazioni a pag. 2 sono tratte da J. LeDoux (1996), Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Baldini & Castoldi, Milano, 1999, pp. 172 e 170
Bibliografia
- Rizzolatti, G., Senigallia,C. (2006), "So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio", Milano, Cortina Raffaello.
- Clarck, E. (1999), "Dare corpo alla mente", McGraw-Hill Companies.
- Damasio, A., R. (1994), "L'errore di Cartesio", Milano, Adelphi.
- Damasio, A. R. (1999), "Emozione e coscienza", Milano, Adelphi.
- Varela, F.(1997), "Neurofenomenologia" in Pluriverso n.3.
- Varela, F. (7.01.2001),"La coscienza nelle neuroscienze" – intervista.
- Maturana, H., Varela, F. (1980), "Autopoiesi e cognizione", Venezia, Marsilio.
- Varela, F., Thompson, E., Rosh, E. (1991), "La via di mezzo della conoscenza", Milano, Feltrinelli.
- Ceruti, M., Damiano, L., Prefazione a Cappuccio M. (2009)– a cura di- "Neurofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell'esperienza cosciente", Milano, Bruno Mondadori.