Numero 1/2012
IL DISCONOSCIMENTO DELL'ESPERIENZA CORPOREA
Marcello Mannella*
L’irrequietezza, lo smarrimento, la mancanza di senso, il senso di vuoto sono alcune delle tonalità emotive che improntano la nostra relazione con il mondo nel nostro tempo.
Ciò è, a mio avviso, conseguenza della scelta epocale con cui si apre la modernità: il corpo considerato cartesianamente, il corpo inteso come oggettività, non più considerato come corpo vivente, come soggetto di vita.
L’itinerario della filosofia moderna ha infatti al suo inizio la decisiva riflessione di Cartesio, che definisce l’uomo come sostanza pensante, come res cogitans e, nello stesso tempo, afferma l’inessenzialità del corpo per la sua esistenza. Il filosofo, pertanto, nell’intento di definire le coordinate epistemologiche della scienza moderna, con la sua considerazione oggettiva e matematica della realtà, ha portato alla dimenticanza, al disconoscimento di quella dimensione del vivere che fa centro intorno all’esperienza corporea immediatamente produttrice di senso.
La nostra esperienza corporea, infatti, è produttrice di un senso del vivere che non è innanzitutto un senso logico, teoretico, ma che nasce dall’esplorazione del mondo attraverso i sensi, dall’incontro del corpo con le cose del mondo.
Nella filosofia di Cartesio, invece, l’uomo è stato scomposto in un corpo e in un’anima. Il corpo umano è stato reificato, oggettivato, relegato nella res extensa.
Il disconoscimento del corpo è così radicale che Cartesio, considerandolo alla stregua di un meccanismo, gli nega la capacità di sentire, di provare emozioni e sentimenti. Mentre per quanto riguarda i corpi animali arriva ad assimilarne le grida di dolore, conseguenza delle pratiche di vivisezione, agli stridii di giunture meccaniche sottoposte a sollecitazione.
L’anima, invece, è considerata come pura interiorità, incorporea, senza estensione, come facoltà pensante che con il procedere rigorosamente analitico dei suoi giudizi, definisce in maniera certa la verità del mondo.
Pertanto nell’orizzonte del pensiero cartesiano, che è poi l’orizzonte del pensiero ancora dominante del nostro tempo, il mondo non è più, innanzitutto, così come io lo vivo e sento, ma così come me lo rappresento, così come io lo penso.
Nella filosofia di Cartesio, dunque, l’uomo non è più riconosciuto come quell’essere che in maniera costitutiva si rapporta al mondo e a se stesso nel mondo; si è dimenticato che la sua originaria apertura al mondo si fonda sulla espressività del suo corpo; si è dimenticato, cioè, che le cose sono innanzitutto, toccate, vissute, manipolate e che proprio per questo acquistano senso e cominciano ad essere.
Abitando il mondo, l’uomo nello stesso tempo acquista coscienza di sé, avverte le proprie potenzialità perché le cose si rivestono del colore delle sue emozioni, dei significati delle sue finalità.
Il rapportarsi dell’esistenza umana al mondo, pertanto, non è da intendersi come quella modalità oggettivante dell’Io Penso cartesiano che, come disinteressato spettatore, prende distanza dal mondo calcolandolo, giudicandolo, ma come l’abitare uno spazio e vivere un tempo in cui le cose si dispongono intorno a me in un ordine esistenzialmente significativo.
E’ il corpo che ci dà la possibilità di avere un mondo; le cose, infatti, sono in quanto sono a me vicine o lontane, disposte alla mia destra o alla mia sinistra, dentro o fuori la possibilità di essere abbracciate dal mio sguardo.
E’ solo in un secondo tempo, e proprio per questo, che posso dispormi ad una considerazione riflessiva, teoretica, oggettiva del mondo stesso.
Profondamente condizionati dallo spirito del nostro tempo, dal suo sguardo oggettivante, misurante, abbiamo perso fiducia nella nostra esperienza immediata, personale del mondo.
La nostra esperienza del tempo, ad esempio, non è più quella del tempo della nostra vita soggettiva, un tempo che scorre in modi differenti, in maniera veloce o rallentata, che si contrae o si dilata, a seconda che io sia triste o felice, annoiato o interessato, ma è, invece, il tempo matematico, il tempo dell’orologio fatto di istanti quantitativamente identici.
Oppure è il tempo della produttività tecnologica, un tempo sempre più veloce, nevrotico, “che non ci lascia più il tempo per far maturare, trasformare le nostre emozioni in sentimenti e che, pertanto, non ci dà la possibilità di dare realtà, profondità alla nostra interiorità” (Ferri, Il Furto del tempo nel Convegno …Come l’acrobata sul filo: le difficoltà delle nuove generazioni - aspetti comportamentali, dinamici e clinici).
Leggevo qualche tempo fa nel quotidiano La Repubblicaun articolo estremamente interessante da questo punto di vista.
Negli Stati Uniti si studia da qualche tempo quella che è stata definita la “sindrome dell’attenzione parziale continua”.
Viviamo cioè, in una società in cui una quantità crescente di sms, e-mail, gadget elettronici distrae continuamente la nostra attenzione dall’attività cui ci stiamo dedicando. Ci impegniamo sempre più in attività svolte simultaneamente concedendo a ciascuna una quota ristretta di concentrazione.
Dallo studio della Kaiser Family Fondation si rileva come negli USA nel 2005 i ragazzi in età compresa fra gli otto e i diciotto anni abbiano consumato 6,5 ore di media elettronici al giorno, ma, in realtà, è come se ne avessero assorbite 8,5 dal momento che un terzo è impegnato in almeno due contemporaneamente.
A parere degli studiosi ciò influisce negativamente sullo sviluppo mentale e sociale dei bambini.
L’occidente, insomma, a parer loro, sarebbe minacciato da queste vere e proprie armi di informazione di massa.
Dal corpo, dunque, che non è più vissuto come corpo-vivente, ma considerato come oggettività, come corpo-cosa, nasce inevitabilmente l’esperienza di un mondo vissuto come freddo, distante; un mondo, perciò, che inevitabilmente viviamo nelle forme molteplici del disagio e del vuoto.
Ciò che ho definito il disconoscimento dell’esperienza corporea proprio del nostro tempo lo possiamo vedere in due opere del periodo metafisico di De Chirico: l’Enigma dell’Ora del 1910 e i Manichini della Torre Rosa del 1915.
L’Enigma dell’Ora è un’opera che si esprime attraverso l’assoluta dominanza dei motivi geometrici, si avverte un senso di profonda solitudine, immobilità, si respira un’atmosfera di mancanza, di assenza. Le strane figure umane che vi compaiono sono fantasmatiche, incerte, spaesate.
Nel dipinto, i Manichini della Torre Rosa, il motivo centrale è evidentemente rappresentato dalla presenza dei due manichini.
Scriveva De Chirico nel 1942:”Il manichino è un oggetto che possiede a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ma senza averne il movimento e la vita; il manichino è profondamente non vivo e questa sua mancanza di vita ci respinge, ce lo rende odioso. Il suo aspetto ci fa paura e ci irrita… Il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo ma il manichino resta. Il manichino non è un giocattolo, fragile ed effimero, che una mano di bambino può spezzare, non è destinato a diventare gli uomini…”. (De Chirico, 2004).
La pittura metafisica di De Chirico mi ha incuriosito fin da ragazzo. Per qualche tempo vi ho visto l’espressione artistica della situazione culturale, esistenziale, spirituale del nostro tempo caratterizzato dalla perdita di senso, dall’assenza di punti di riferimento, dall’assoluta dominanza dell’immanenza, della presenzialità, pur nell’ambito della trascendenza, del desiderio di elevarsi, del desiderio di andare alla ricerca di nuovi e più profondi significati dell’esistenza.
Oggi sento di potere affermare che i sentimenti di estraneità, di spaesamento, di mancanza che dalle opere sembrano emanare siano da ricondursi alla dimenticanza, al disconoscimento della esperienza corporea.
Se il corpo è dimenticato, infatti, viene a perdersi la possibilità di radicarci nel mondo, di dare fisicità, concretezza alla nostra esistenza.
L’immagine è quella dell’albero che tanto più può elevarsi verso il cielo e rendere rigogliosa la sua chioma, quanto più le sue radici compenetrano profondamente il terreno che lo sostiene.
Così anche per quanto riguarda la nostra esistenza possiamo dire che quanto più siamo integrati, identificati con la nostra corporeità tanto più saremo nella vita e tanto più ci sarà possibile muovere alla ricerca dei suoi possibili e molteplici significati trascendenti, in cui finalmente terra e cielo possono incontrarsi e toccarsi.
Il nostro tempo è il tempo della povertà, del vuoto perché è dimenticato il corpo, e la nostra coscienza, pertanto, disincarnata e astratta. Si tratta, allora, di uscire dal dominio delle coordinate della razionalità scientifica, muovere verso il superamento della dicotomia mente-corpo e compiere un primo e importante passo per l’affermazione di un’atmosfera culturale caratterizzata dal riconoscimento della esperienza corporea.
Tale riconoscimento si rende oggi ancor più necessario per il fatto che viviamo nell’età della tecnica ormai dispiegata a livello planetario e l’esperienza del vuoto si avverte con maggiore drammaticità.
Per tecnica, infatti, non dobbiamo solo intendere l’insieme dei mezzi che costituisce l’apparato tecnologico, ma soprattutto considerare il modello di razionalità che ne determina il loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. E’ ingenuo perciò continuare a pensare che essa ci fornisca, sempre e comunque, gli strumenti per la realizzazione dei nostri fini, è necessario considerare, invece, il pericolo che l’esistenza umana sia inglobata, essa stessa, nelle esigenze dell’apparato tecnico.
La tecnica infatti non tende ad altro scopo, non ha altro orizzonte di senso, che realizzare ciò che è tecnicamente possibile realizzare e la domanda da porsi non è più, allora, come dice U. Galimberti in Psiche e Techné (1999), “che cosa possiamo fare noi con la tecnica”, ma piuttosto ”che cosa la tecnica può fare di noi”.
La sua razionalità, infatti, caratterizza ormai profondamente il nostro sentire e pensare, le nostre azioni, i nostri desideri.
Addirittura il nostro stesso corpo, cifra della nostra individualità attraverso la sua storia, è sottoposta al rischio delle biotecnologie.
La nostra esperienza del mondo, ad esempio, oggi è profondamente mutata, non è più diretta ma tende ad essere sostituita dalla rappresentazione mediatica.
La nostra interiorità che si forma nel tempo in risonanza con gli eventi vissuti in maniera diretta, personale, rischia pertanto di essere omologata e di identificarsi, insieme alle altre coscienze, con la narrazione del mondo proposta dai mass-media.
Da questo punto di vista è, a mio avviso, decisivo il ruolo della scuola che, insieme alla famiglia, è il luogo di elezione per l’educazione e la crescita dei giovani.
Eppure sempre di più nelle programmazioni didattiche si registra una carenza di attenzione alla sensorialità e affettività degli allievi, non si avverte la loro importanza ai fini dell’apprendimento e per la definizione della loro personalità, a tutto vantaggio del privilegiamento della sfera cognitiva.
Per cui i giovani, che sempre più vivono un’esperienza familiare disfunzionale, in cui sovente la televisione, internet, e i videogames svolgono la funzione di intrattenere ed educare, vivono insieme un’esperienza scolastica che parimenti non li aiuta a crescere, che può non fornire loro gli strumenti emozionali per elaborare i propri conflitti interiori, le proprie difficoltà relazionali, che non li aiuta a trovare personali percorsi di individuazione.
Ma l’assunzione di responsabilità non riguarda solo le istituzioni.
Il nostro tempo, infatti, carico di devastanti conflitti sociali, economici, culturali, religiosi, in cui il problema ecologico acquista di anno in anno un’urgenza sempre più drammatica, ci richiama individualmente alla responsabilità.
Occorre che ciascuno di noi si impegni in un cammino di ricerca, di dialogo interiore, di consapevolezza comunicativa.
Nella mia attività professionale ricordo spesso a chi mi si affida-ma in fondo lo ricordo ogni volta a me stesso–che la crescita etica, spirituale, non accade necessariamente, come lo sviluppo fisico del corpo.
E’ necessario un atto di volontà, di decisione, perché la crescita spirituale si fonda sulla scelta di mantenersi nella disposizione ad osservarsi, a dare forma cosciente alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, ai propri pensieri, a ricercare costantemente il proprio senso di vivere.
E il nostro tempo, che è il tempo della dimenticanza, dell’oblio, del vuoto, ha sicuramente bisogno del contributo di coscienza di ognuno di noi.
Bibliografia
- De Chirico, G. (2004), “Titolo del contributo” in C. Porcu (a cura di) Classici dell’arte del ‘900, XIV volume. (Fig. 1 e Fig. 2).
- Galimberti, U. (1999), Psiche e Techne. Milano: Feltrinelli.
- Ferri, G. (2002), Il furto del tempo in Convegno “...Come l’acrobata sul filo le difficoltà delle nuove generazioni–aspetti comportamentali, dinamici e clinici”. Roma.