Numero 1/2012
un film come pre-testo in una simulata videoregistrata (Prima parte)
Giuseppe Ciardiello*
Nel corso di specializzazione della Scuola Italiana di Analisi Reichiana (S.I.A.R.), il collega Aldo Gentile ed io abbiamo sperimentato una modalità didattica per alcuni versi insolita, rispetto ai tipici strumenti didattici. Modalità che si è rivelata fin da subito di forte impatto emotivo e molto formativa nell’ambito della specializzazione in psicoterapia con approccio Analitico Corporeo Reichiano. Ad oggi questa esperienza seminariale si è già ripetuta per undici volte e ha sempre di più assunto un carattere e una forma meritevoli di puntualizzazione. Questo è l’intento del presente lavoro, che vuole fornire un primo inquadramento di uno strumento da perfezionare negli anni successivi.
I seminari di cui parlo si tengono nel corso dei quattro anni di specializzazione e sono stati suddivisi in due parti. Nei primi due anni gli incontri appartengono ad un ciclo la cui denominazione è: Lettura analitica reichiana di opere cinematografiche. Sono svolti proponendo agli allievi la visione di film i cui temi gravitano intorno a situazioni psichiatriche o psicoterapeutiche. Dal film gli allievi devono ricavare il carattere dei personaggi: devono individuarne i tratti caratteriali (psichici e corporei) che li distinguono, devono definire le possibili configurazioni di eventi significativi di tipo evolutivo, capaci di influire nella definizione di questi caratteri e, infine, devono definire il tipo di carattere delle relazioni che questi personaggi intessono.
Il secondo ciclo di seminari, che si tiene nel corso del terzo e quarto anno, si chiama: Osservazione della relazione.
Prevede la rivisitazione dei film proiettati gli anni precedenti con la richiesta di uno sviluppo ulteriore della storia: la consegna è di immaginare una continuazione della storia che vada oltre la fine del film e in cui il protagonista si riscopre, dopo qualche anno, ancora dentro il problema rappresentato cinematograficamente e che perciò si rivolge ad uno psicoterapeuta. Gli allievi sono invitati a simulare questo nuovo contesto. Si tratta, quindi, di una simulazione in cui un allievo interpreta il protagonista del film e un altro lo psicologo consulente cui il protagonista si rivolge.
La rappresentazione simulata è ripresa con una telecamera digitale che ci consente poi di riproporla al gruppo classe, nello stesso incontro, dando luogo ad una videoconfrontazione traslata nel tempo.
Ci siamo così trovati a ripercorrere le forme didattiche della simulazione, del role playng e della videoconfrontazione in forma combinata.
La simulazione (incarnata)
C’è innanzi tutto da dire qualcosa sulla necessità, che quasi tutte le scuole di psicoterapia incontrano, di ricorrere alle simulate per rendere più chiari ed evidenti determinati comportamenti problematici; nei film sono proprio i comportamenti problematici quelli capaci di sollecitare la partecipazione empatica degli spettatori. Però, e forse proprio perché ci trascinano empaticamente, questi stessi comportamenti non sono sempre chiaramente identificabili nelle loro caratteristiche comportamentali.
Il valore didattico della modalità che abbiamo proposto, di replicare in vivo e in prima persona determinate scene del film visionato, da un lato è dato dalla possibilità di interpretare e, per chi assiste, di osservare dal vivo un comportamento; questo consente di evocarne un’analogia cognitiva e fisiologica dentro di noi (potremmo definirla esperienza empatica confortati dagli assunti derivanti dalla scoperta dei neuroni specchio). Dall’altro lato il valore didattico è dato dalla possibilità di restare distanti dall’esperienza quel tanto da poterne razionalizzare le dinamiche ed evidenziarne le caratteristiche, producendo contesti ludici analoghi a quelli descritti da Wallin (2009) a fondamento delle prime formazioni mentalizzanti nei bambini.
Questa pratica ha consentito di ipotizzare una formalizzazione, seppure in embrione, più puntuale ed evidente delle modalità di intervento psicologico in un contesto di consulenza, che era quello simulato. Inoltre, anche rimarcando la soggettività e l’irripetibilità di ogni intervento, ha consentito di sperimentare un apprendimento dal vivo secondo le categorie del come se.
Ognuno dei protagonisti e degli spettatori ha visto e sentito i comportamenti degli attori/allievi con la possibilità pratica e contestuale di paragonare i caratteri simulati a quelli rappresentati dagli attori, veri, del film.
In ciò è anche consistita la difficoltà avvertita nella recitazione. Alcuni allievi hanno sottolineato la difficoltà dell’immedesimazione e a questa difficoltà ritengono di poter far risalire la difficoltà di leggere i tratti caratteriali dei protagonisti; ciò specialmente quando si è immersi direttamente nella scena.
Cioè, per alcune persone il tentativo di simulare il comportamento del personaggio sembra produrre una maggiore difficoltà di lettura del carattere.
In realtà, nel momento della simulazione si avverte maggiormente la discrepanza tra il comportamento rappresentato dall’attore e quello simulato dall’allievo ora protagonista; questa discrepanza è quella che consente la lettura del carattere dei personaggi ma evidentemente, nel momento in cui le persone sono soggettivamente coinvolte e sono investite direttamente dagli/negli eventi relazionali, che sono quelli emergenti nella realtà della simulazione, intervengono difficoltà interpretative che sono riconducibili alle dinamiche e tematiche soggettive.
Anche la presenza della telecamera per la ripresa della rappresentazione simulata, sollecita un investimento ulteriore che rende ancor più difficile la lettura dei caratteri. È evidente che già la simulazione in sé è una pratica che stimola l’elemento narcisistico con tutto quello che può comportare (compiacenza, timidezza, esibizionismo, competizione ecc.), stimolo ancora di più accentuato dalla presenza della telecamera.
In genere si è portati a pensare che la distanza emotiva, fisica ed affettiva, consenta una lettura più chiara e immediata della situazione problematica; con la simulazione siamo posti di fronte alla possibilità di comprendere il senso di questa affermazione nella pratica e cercare di capirne il motivo facendo appello a sensazioni e percezioni personali che, in quanto tali, sono eventi esperienziali. A ben vedere, con la simulazione sembra di stimolare l’atteggiamento terapeutico per eccellenza; cioè quella possibilità di attivare, individuare e indagare stimoli esperienziali che producono trasformazioni dentro di noi capaci di far emergere vissuti che ci consentono la lettura degli eventi, e quindi anche dei caratteri delle persone con cui ci confrontiamo.
La simulazione, e poi l’uso di videoregistrazioni, non è una pratica nuova nell’ambito della psicoterapia. Alcuni clinici ne fanno uso sistematicamente, essendo previsto nell’iter terapeutico, per cui si può dire che la simulazione, di per sé, non è un metodo nuovo nell’apprendimento della psicoterapia. Ma un ulteriore recente contributo alla sua utilizzazione in ambito formativo possono essere considerate le ultime acquisizioni neurofisiologiche circa i neuroni specchio: processi e strutture neuronali, presenti nella corteccia prefrontale, attivi e funzionanti sin dai primi giorni dalla nascita. (Rizzolatti, 2008).
Individuati per la prima volta nella corteccia prefrontale delle scimmie, queste strutture sono state scoperte anche nell’uomo (Gallese, 2006). Si attivano per produrre un processo di simulazione quando si è spettatori di un comportamento emesso da un’altra persona.
Il lavoro successivo, ad opera di Vittorio Gallese, collega di Rizzolatti, ha teso ad approfondire le ricerche sul ruolo di questi neuroni nell’organismo umano portando alla scoperta di un’intera serie di correlazioni che stanno cambiando il modo di concepire il funzionamento della mente. Così, per esempio negli esseri umani, si è scoperto che anche gli oggetti inanimati sono in grado di attivare questi neuroni.
Dal punto di vista cognitivo, il sistema dei neuroni specchio mette in crisi l’idea computazionale della mente, secondo cui la conoscenza sarebbe la conseguenza degli eventi la cui interpretazione deriva dalla capacità di rappresentazione della mente stessa, associata alla capacità di formulare correlazioni logiche. I neuroni specchio dimostrano che la simulazione, essendo automatica, prelogica e riflessiva, è alla base delle prime forme di apprendimento e quindi che la conoscenza è fondamentalmente intersoggettiva (e deriva dall’esperienza relazionale), e che avviene tramite lo strumento della simulazione incarnata. Rimandiamo a tutti i lavori di Gallese e Rizzolatti per i dovuti approfondimenti mentre preferiamo soffermarci sulle caratteristiche che più specificamente possono tornarci utili per il nostro lavoro.
Proponiamo solo un piccolo brano di Gallese che esplicita gli assunti di base: “Propongo che l’intelligenza sociale non sia solo meta-cognizione sociale, ovvero, pensare esplicitamente ai contenuti della mente altrui attraverso rappresentazioni astratte. Le relazioni interpersonali contengono anche una dimensione esperienziale che ci consente una comprensione diretta del senso delle azioni, delle emozioni e delle sensazioni altrui. (…) questo sistema della molteplicità condivisa può essere caratterizzata al livello funzionale come simulazione incarnata, un meccanismo specifico attraverso il quale il nostro sistema cervello/corpo modella le sue interazioni col mondo” (Gallese, 2006, p. 2).
In pratica i lavori sui neuroni specchio consentono l’ipotesi di una primaria forma di apprendimento che, verificandosi a livello subliminale, rimane attiva per tutta l’esistenza e che, inoltre, essendo dipendente dall’esperienza, è radicata nel corpo. È questo che induce Gallese a parlare di simulazione incarnata.
La simulazione incarnata quindi presiederebbe al controllo delle azioni e alla loro comprensione; l’incapacità di simulare, che può essere determinata sia da problemi neurologici, più o meno precoci, sia da una ridotta stimolazione sensoriale in fasi evolutive primarie, può determinare una cecità empatica (Gallese, 2006). Questa può essere considerata come una verifica del fatto che l’attribuzione di senso alla realtà non può derivare solo da una semplice rappresentazione cognitiva o computazionale ma deve essere veicolata dalle persone con cui si interagisce. È questo un principio base già elaborato dagli autori che trattano l’”intersoggettività” per la quale rimandiamo ai testi di Lachmann e Beebe (2003). La simulazione ci permette la comprensione di un comportamento che osserviamo svolgersi davanti ai nostri occhi e ci mette in grado di predirne le finalità e intuirne il senso. Quando si tratta di altri umani, assumiamo che siano simili a noi e, proprio perché diamo atto della convinzione di somiglianza, non abbiamo bisogno di formulare nessuna teoria per capire come si muovono queste persone e per quali fini. Lo sentiamo dentro di noi in automatico perché anche per noi, al loro posto, si realizzerebbero gli stessi processi organismici se compissimo le azioni che compiono loro. Quindi, per tutti i possibili modi in cui le persone interagiscono, nel nostro organismo esiste un meccanismo funzionale di simulazione incarnata che ci fornisce una serie di certezze implicite su noi e sugli altri.
Mentre Rizzolatti scopriva accidentalmente l’esistenza dei neuroni specchio a Pisa, Vezio Ruggieri nel 1997 pubblicava a Roma un libro dal titolo: “L’esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per un’educazione estetica”
Questo libro indaga i processi psicofisiologici che portano alla realizzazione dell’esperienza estetica. Ruggieri cerca di descrivere i processi che ci portano a godere del piacere della contemplazione di un’opera d’arte o dell’ascolto di una poesia o di un’opera lirica o di un concerto o di un libro. Egli chiama il processo principe di questa funzione, la decodificazione imitativa che, insieme ad alcune altre funzioni, ritiene determini “l’emozione estetica che è una …esperienza protomentale con modulazione delle tensioni”(ibidem, 2007).
Ruggieri così la descrive:
“L’esperienza estetica inizia con una decodificazione dello stimolo che è in sostanza un’operazione di tipo percettivo su cui possono intervenire, sia in senso facilitatorio che inibitorio, le altre componenti del processo. Il risultato finale, che costituirebbe secondo noi lo specifico dell’esperienza estetica, consisterebbe in una particolare forma di attività psicofisica che abbiamo definito (sviluppando alcuni concetti di Bion) protomentale. Tale processo consisterebbe in un particolare vissuto soggettivo generato da particolari giochi di tensione-detensione corporea. Tali configurazioni di variazioni di tensione sarebbero prodotte da un meccanismo, che nell’esperienza estetica è fondamentale, che abbiamo definito decodificazione imitativa.” (ibidem, p. 18-19)… “l’esistenza di tale processo è suggerita da ricerche (svolte presso la cattedra di Ruggieri) che confermerebbero l’ipotesi che nella percezione di pattern di atteggiamenti mimico-espressivi (per es. di una foto di bambina che fa le boccacce) il soggetto percipiente tenderebbe a riprodurre, in modo appena accennato, lo stesso pattern mimico espressivo della figura-stimolo.” (ibidem, p. 21).
Mentre per un approfondimento circa il protomentale rimandiamo all’ottimo lavoro di Antonio Imbasciati (1983), ci sembra di poter affermare che la simulazione incarnata e la decodificazione imitativa parlino lo stesso linguaggio e facciano riferimento agli stessi processi organismici. Ma prima di calare questi assunti nell’argomento che ci sta a cuore, che è la videoconfrontazione, ci sembra importante un altro breve brano tratto ancora dal testo di Ruggieri: “se è vera la nostra ipotesi, durante la decodificazione imitativa l’osservatore non fa altro che produrre un segnale simile a quello del suo interlocutore. Poiché il segnale mimico-espressivo contiene delle componenti emozionali, l’osservatore, riproducendolo, diventa in qualche modo un ripetitore di un segnale di cui può in qualche modo percepire, proprio perché lo riproduce, le componenti emozionali. In altri contesti di studio abbiamo esposto il concetto di decodificazione imitativa alla base di quel processo complesso, e per molti versi ancora da studiare, definito in ambito psicoanalitico empatia. Per esempio riprodurre in modo automatico ed inconsapevole (per lo più in modo non superficialmente rilevabile) lo stesso atteggiamento di pianto dell’altro con cui si è in empatia, significa percepirne anche lo stesso vissuto emozionale.” (ibidem, p.28)
Possiamo immaginare che questo meccanismo innato di imitazione, capace di riprodurre le emozioni che accompagnano i comportamenti cui assistiamo, così da capirne il senso e gli scopi, e che è presente fin dal periodo prenatale in forma inconsapevole, sia lo stesso che ci mette in condizione di capire, intuire, predire, comprendere, desiderare, criticare, correggere il comportamento che vediamo riprodotto sullo schermo quando assistiamo ad un film. Quel comportamento, che è frutto dell’interpretazione che noi spettatori diamo a quelle macchie di colore proiettate sullo schermo[1], lo capiamo e lo sentiamo grazie all’empatia che viviamo per mezzo dell’identificazione con tutti i personaggi.
Possiamo quindi dire che comprendiamo il comportamento di tutti i personaggi, e siamo pronti ad accettarne o criticarne il comportamento, perché ognuno di essi rappresenta una parte di noi che ri-scopriamo, vedendo il film, per mezzo di quei processi che siamo soliti definire comunemente malìa cinematografica che si realizza per il processo dell’empatia, come suggerisce Ruggieri, e che a sua volta si lega ai processi di riproduzione e replica dei meccanismi neurofisiologici prodotti dai neuroni specchio.
Se la simulazione e/o la decodificazione imitativa intervengono automaticamente in ogni processo di comprensione della realtà, quindi anche della realtà filmica, per la qual cosa alcuni autori di testi sul cinema (Metz, 1993; Casetti e Di Chio, 1994) ritengono che siano gli stessi spettatori a fare il film, e che quindi possiamo dedurne che costituiscono la base psicofisiologica imprescindibile per l’intersoggettività, nel nostro contesto didattico proponiamo l’individuazione, nei film proposti, delle scene di maggiore impatto e che rappresentano una relazione critica e importante. Spesso privilegiamo le scene che rappresentano transazioni esplicitamente terapeutiche e da queste proviamo a risalire ai processi psichici e fisiologici che sottostanno alle immedesimazioni che viviamo da spettatori. Il nostro obiettivo è la corretta comprensione dei processi psicofisici che avvengono dentro di noi, poiché riteniamo che possano essere i facilitatori d’eccellenza per la comprensione dei tratti caratteriali dei singoli personaggi.
Le difficoltà nella rappresentazione a volte possono essere considerati come comportamenti emessi in seguito alla presenza di un conflitto. Cioè è possibile che la simulazione di un comportamento ci costringa ad atti e azioni che abbiamo censurato ed escluso a priori dal nostro repertorio. Ciononostante dobbiamo rappresentare quel comportamento prescritto dal lavoro seminariale.
Ci troviamo allora davanti al problema di doverci esprimere per mezzo di un comportamento che sentiamo confliggere col nostro modo di essere di base che, forse anche per abitudine, ha escluso dal repertorio un certo modo di essere. Proprio per questo allora la telecamera renderà più difficile la sua rappresentazione; primo perché dovremo rivederci e potremmo non piacerci nella simulazione perché, censurato un comportamento potremmo apparire ridicoli e/o inadeguati nella sua rappresentazione. In secondo luogo la proiezione successiva renderà innegabili le nostre ridicolaggini e le inadeguatezze. La conferma di questa dinamica ci viene dall’osservare una maggiore dimestichezza nella rappresentazione, nelle persone che hanno seguito corsi di teatro. In tutto questo, ciò che spesso sfugge ai protagonisti/spettatori, è proprio l’utilità derivante da queste difficoltà di rappresentazione. La distanza comportamentale tra noi e i personaggi cinematografici è data dalla matrice psicofisica costituitasi soggettivamente per ognuno di noi in relazione alle esperienze evolutive che abbiamo avuto. Questo determina la costruzione di registri emozionali unici per cui quando afferriamo la differenza tra il nostro modo di porci e quello dell’altro, abbiamo la possibilità di cogliere a livello di esperienza, e quindi di sentire dentro di noi, il cambiamento di registro emozionale capace di indicarci le caratteristiche del carattere che stiamo tentando di simulare. Per questo c’è bisogno di creare una distanza a livello d’esperienza (Wallin, ib.), una distanza che ci metta in una posizione di migliore possibile lettura. Viceversa possiamo ipotizzare che, se siamo bravi nella rappresentazione del comportamento di un dato personaggio, è possibile che sia anche perché il carattere rappresentato è quello che comunemente privilegiamo, che ci piace, che più ci assomiglia e con cui più facilmente ci fondiamo. Individueremo più facilmente quel carattere che si oppone o che tende sempre più a differenziarsi dal nostro gusto perché meno confuso con le nostre aspettative e i nostri desideri.
I vari autori della costruzione filmica, regista, autore, sceneggiatore, doppiatore ecc., hanno collaborato nel costruire in maniera mirata oggetti di interazione di forte penetrazione nel pubblico. Per questa operazione hanno individuato e modellato elementi narrativi e relazionali capaci di plausibilità scenica così da promuovere la condivisione del pubblico anche quando la realtà rappresentata è molto distante dalla quotidianità dello spettatore. Un buon film riesce a realizzare questi processi con semplicità narrativa e la bontà della realizzazione artistica determina il nostro sentimento di piacevolezza. Quando il film è un bel film e quando il sentimento di godibilità la fa da padrone, diventa difficile riuscire a restare lucidi senza lasciarsi intorpidire da quello stato sognante indotto dalla visione cinematografica. Probabilmente lo scopo degli autori è esattamente quello di produrre uno stato simil-onirico negli spettatori e per riuscirci adottano quegli espedienti tecnici di codifica che noi psicologi, a nostra volta e nel nostro lavoro, possiamo proporci di individuare e decodificare.
Ciò che il film ci consente di sperimentare è anche la difficoltà a restare in contatto con la nostra capacità di osservazione e di riflessione mentre siamo coinvolti in una esperienza emotivamente significativa. È possibile che questa sia la stessa difficoltà di fronte alla quale ci troviamo quando siamo al cospetto del racconto di un paziente in un setting terapeutico; e allora possiamo ipotizzare che se riusciamo, durante la visione di un film, a rimanere sufficientemente lucidi da leggere i tratti caratteriali dei personaggi e a tollerare il grado di diversità del nostro registro di attivazione emozionale, forse impareremo a restare più lucidi e riflessivi anche durante un setting terapeutico mentre staremo provando confusi stati affettivi per effetto dell’empatia. Questo atteggiamento può diventare un requisito professionale.
Al cinema sono gli elementi di natura intersoggettiva quelli che gli artisti hanno cercato di modulare nella maniera migliore per giungere ad una compiuta condivisione dello spettatore con la scena rappresentata; probabilmente sono gli stessi elementi sui quali operano, anche se inconsciamente, i nostri pazienti nella stanza di terapia proponendosi registi della rappresentazione a due. È questa possibile similitudine a sedurci al punto da indurci a guardare al setting cinematografico come un setting terapeutico che è possibile realizzare per mezzo delle simulate.
Alla luce del sistema della molteplicità condivisa, l’osservazione dettagliata di un’interazione specifica, resa possibile dalla tecnica della videoconfrontazione, ci consente di prendere tempo e spazio dal coinvolgimento scenico così da poter far seguire, allo svolgersi dell’azione, la individuazione e comprensione dei processi attivi nella partecipazione empatica e nel comportamento vissuto, riprodotto nel/dal nostro organismo.
Un ulteriore elemento interessante delle ricerche suesposte è la scoperta dell’esistenza di neuroni specchio anche nell’area corticale deputata alla formazione del linguaggio: l’area di Broca.
La funzione verbale di quest’area è una funzione evolutiva come tutte le altre funzioni cerebrali e, come tale, necessita di esercizio e del supporto delle funzioni precedentemente costituitesi. Anche in questo caso parleremo quindi di integrazione funzionale. Le funzioni della cui maturazione e integrazione la funzione verbale necessita, non sono solo funzioni cognitive bensì anche funzioni corporee e sensoriali. Infatti: “… senza la distinzione fra oggetti e modalità di rapportarsi ad essi, è da ritenersi impossibile che il bambino incida gli engrammi sonori dando loro un significato preciso. In altri termini, affinché il linguaggio verbale si possa costituire, è necessario che, in precedenza, si sia costituita la possibilità di un linguaggio, che può anche non essere verbale: ossia la possibilità che siano organizzabili engrammi, di qualunque origine sensoriale essi siano idonei a significare quei significati che permettono un linguaggio, ovvero una comunicazione.” (Imbasciati, 1983, p. 101).
Seguendo Imbasciati, ci sembra allora di poter dire che quando si realizza una comunicazione, anche se verbale, ci si avvale comunque degli engrammi primariamente costituitisi (probabilmente riconducibili alle esperienze primarie che determinano quella che i teorici dell’intersoggettività definiscono la conoscenza implicita) e, siccome narrare come si sono svolti gli eventi relazionali significa rappresentarli verbalmente sia a sé sia agli altri ascoltatori, le interazioni in corso, in cui si tenta di ripercorrere rappresentativamente i dettagliati processi psicofisiologici, sono suscettibili di attivare le simulazioni incarnate (che si attivano automaticamente dagli engrammi primari). Possiamo allora anche dedurre che l’ascolto di un punto di vista diverso dal proprio, cosa che può avvenire sia in un setting analitico sia nel corso di un incontro didattico che si avvale anche del gioco della simulazione di scene filmiche, sarà suscettibile di produrre una simulazione psicofisica alternativa del vissuto soggettivo associato ad un’esperienza specifica; quindi sarà in grado di portare ad una comprensione più ampia del vissuto relazionale cui si è assistito.
In pratica è come dire che anche una discussione di gruppo che, come la nostra, si propone come un esercizio didattico teso a definire i tratti caratteriali dei singoli personaggi, consente a tutti i presenti di costruire un più ampio ventaglio interpretativo delle singole relazioni, anche alternativo al proprio modo di interpretare la realtà psicologica, e a consentire una rivisitazione critica dei propri vissuti promuovendo quella che, secondo Peter Fonagy è la funzione riflessiva (Fonagy, Target, 2001).
(continua…)
[1] (… in linea con l’ipotesi gestaltista di un’autonoma capacità operativa della mente rispetto alla percezione, infatti, l’autore (Arnheim, “Film come arte”, 1989, Feltrinelli) ha criticato chi vedeva nel cinema un mero strumento di registrazione del reale; piuttosto, l’insieme delle scelte tecniche ed espressive del regista – dal singolo fotogramma, alle inquadrature, al montaggio – determinano specifici risultati percettivi ed estetici. Ed anche il regista, dunque, elaborerebbe il materiale filmico secondo le strutture operative della mente. … in sintesi, secondo A (Metz) (Chio)., sarebbe l’attività cognitiva dello spettatore stesso – in virtù di sue caratteristiche intrinseche – a strutturarsi durante l’esperienza cinematografica in un modo tale da conferire un particolare “carattere di realtà” alla scena proiettata sullo schermo che, a sua volta, produce quello che l’autore definisce effetto di “illusione parziale” sullo spettatore…). Pag. 24, da:”Immagini sullo schermo: introduzione alla psicologia del cinema”, di Massimiliano Sommantico, Liguori Ed. 2008),
Bibliografia
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