Numero 1/2023
CURARE LENIRE CONFORTARE
TREAT RELIEVE SUPPORT
DOI 10.57635/SIAR40
Nicole Cordioli[*]
Abstract
Un’analisi può compiersi solamente per i vivi che continueranno ad essere vivi? Nel seguente articolo si riflette sul come poter adottare l’approccio Analitico Reichiano Contemporaneo in contesti sanitari di fine vita. Si pone l’accento non tanto sull’analisi individuale in senso stretto, ma sul corpo, come soggetto di relazione e di cura, sia con il paziente, sia con i familiari e il personale sanitario. Si pongono in risalto esperienze e competenze di professionisti che, nel tempo, hanno analizzato la tematica dell’accompagnamento nel fine vita.
Parole chiave
Fine vita – aptonomia - modalità relazionali - corpo.
Abstract
Can an analysis be performed only for those who will stay alive? The following article discusses the way in which the Reichian Model could be used in the end-of-life care settings. The study does not focus on the individual analysis in the strict sense, but on the body, as the main subject on which treatments and relationships involving patient, and care team are bases. The experiences and skills of professionals who have studied the end-of-life care over the years are highlighted.
Keywords
End-of-life – haptonomy - relational modalities - body.
Marie de Hennezel, psicoanalista e autrice de La morte amica, che ha lavorato per molti anni nei contesti delle cure palliative, in Hospice, scrive: “È probabile che l’accompagnamento dei moribondi non rientri nell’ambito della psicoanalisi. Nondimeno continuo a sostenere che si può restare analista, cioè all’ascolto dell’inconscio e della dinamica psichica in atto negli ultimi istanti, e assumersi quel compito iniziatico che consiste nell’impegnarsi totalmente nell’accompagnamento attraverso un passaggio.” (de Hennezel, 1996; pag.189).
Penso che la risposta alla domanda sul significato di essere analista in strutture sanitarie di lungo degenza per disabili e di cure palliative, risieda nel senso che vogliamo dare alla nostra professione. Un’analisi può compiersi solamente per i vivi che continueranno ad essere vivi? Se lo scopo della nostra professione è di aiutare le persone a vivere meglio sciogliendo i loro nodi, in quest’ultima accezione, anche chi ha un’aspettativa di vita breve può avere nodi o sospesi che forse gli impediscono anche di lasciare la vita al naturale termine. Allora, aiutarlo a vedere, capire o agire, può permettergli di lasciare la vita avendo compiuto quello che c’era da compiere.
Si parte dall’assunto che la vita istintiva, affettiva ed emozionale trovi luogo ed espressione nel sistema nervoso vegetativo, nel sistema muscolare, nel sistema neuroendocrino, nel sistema psichico e nella pulsazione energetica. Possiamo dire che, se assumiamo un’ottica tridimensionale analitico-reichiana (considerando fase evolutiva, tratto caratteriale, livello corporeo), non ci serviamo tanto dei sintomi per incasellarli in categorie prestabilite, ma, attraverso la storia emozionale, relazionale di quella persona, possiamo cogliere la domanda implicita, l’intelligenza e l’economia di quella sofferenza in qualche modo esplicitata. Co-costruire insieme alla persona un progetto terapeutico mirato, un percorso specifico, come lo è la nostra storia e il nostro essere (Ferri, 2017).
Partendo da tali assunti di Analisi Reichiana Contemporanea, come si può mantenere tale approccio nei contesti come quelli sopra citati? Come poter lavorare adottando tale modello in setting in cui non è possibile intraprendere un’analisi individuale in senso stretto e in cui quotidianamente la morte e la sofferenza sono compagne?
In questi quattro anni di Scuola di questo orientamento, ho interiorizzato come l’analisi Reichiana possa aprire ed essere aperta, non solo all’analisi individuale e agli acting categorizzati, ma anche al linguaggio del corpo, il comunicare con il corpo, il linguaggio tra i tratti, il sentire l'altro, le diverse modalità dello stare in relazione (la posizione del terapeuta). La maggioranza delle persone che risiedono in strutture palliative o di lungo degenza chiedono prossimità, vicinanza emotiva, riconoscimento, e aiuto nel riconoscersi anche nella sofferenza, anche nella morte.
Marie de Hennezel, fondatrice di un centro di cure palliative per malati terminali in un grande ospedale parigino, evidenzia come il suo scopo in questi centri, come psicoanalista, sia alleviare il dolore e accompagnare il paziente terminale verso una buona morte (De Hennezel, 1996).
Marie racconta di un episodio in cui si sentiva impotente come psicologa e senza strategie davanti ad un uomo sofferente e sul punto di morire. Con il senno di poi esplicita la sua gratitudine per quel vuoto con cui è entrata in contatto, poiché le ha permesso di esserci davvero con l’altro. Istintivamente racconta di essersi inginocchiata al letto di quel paziente e di aver posato una mano sulla metastasi che colpiva l’uomo, al petto, come diremmo noi, al 4° livello, sede dell’affettività e dell’Io e lì è rimasta. L’uomo poco dopo si è addormentato. E fece così per un mese, lasciandosi guidare da lui, spesso senza nemmeno dire una parola, preservando quel contatto che lui ricercava e che gli dava pace.
Hennezel si interrogava se quello fosse un compito da psicologa, come me lo chiedo anch’io: se intendiamo un’analisi che accompagna nello scioglimento di nodi, di non compiuti, che accompagna la persona che sta per morire a sciogliere questi nodi, perché possa lasciare questa vita nella pace del suo compimento, credo possa essere un compito da psicologa. E lei, come me, si rispondeva che non stava rispondendo forse ad un bisogno in modo funzionale per lui, per la sua psiche? Non stava forse in quel giusto contatto da non fondersi o confondersi? È proprio su questo che si pone l’attenzione. Una relazione priva di angoscia, di pesantezza che, specialmente nella fragilità, talvolta attanaglia familiari e amici: l'attenzione a un giusto contatto.
È importante trarre un’anamnesi analitico-caratteriologica abbastanza completa, al fine di cogliere, tenendo conto della patologia e delle fragilità corporee presenti, l’unicità della persona, partendo non dalla patologia, ma dal suo sé. Comprendere ciò aiuta a scegliere in quale posizione porsi, non nel percorso analitico in senso stretto, ma nella quotidianità di ciascuno; infatti la struttura sanitaria diventa per loro una casa.
Mi sono chiesta spesso come poter affrontare attraverso il nostro modello le realtà sanitarie residenziali e specificatamente come servirsi del corpo, come soggetto e oggetto sia di relazione sia di cura, in particolar modo con quelle persone le cui fragilità non consentono una comunicazione verbale e una cognitività integra.
Sia per limiti organizzativi (non è possibile attuare un percorso psicoterapico individuale con tutti), sia per limitazioni cognitive e fisiche, diviene complesso porre in essere un’analisi. Seguendo il principio di realtà, si sottolinea l’importanza di procedere partendo da dove si trova la persona che incontriamo e porsi mete per lei possibili.
Secondo Marie de Hennezel (1996; 1998) le persone, nel momento del fine vita, si ritrovano nelle stesse condizioni in cui si trovano i neonati nei loro primi mesi di vita: inermi, incapaci di muoversi e di lavarsi da soli. Mentre i neonati ricevono cure amorevoli, gli ammalati ricevono cure esperte ma spesso meccaniche. Gli stessi parenti non sono preparati a prendersi cura di chi nella vita è stato sano e autonomo, si sentono a disagio e il malato si ritrova solo. La tenerezza che accompagna i neonati alla nascita dovrebbe accompagnare il malato terminale alla morte in egual misura.
De Hennezel pratica l’aptonomia, un approccio psico-tattile ideato da un medico olandese, Franz Veldman (2007), verso la metà del secolo scorso. Il nome deriva dal greco hapto (toccare, prendere contatto, entrare in relazione) e nomos (regola) e significa scienza dell’affettività espressa attraverso il contatto.
In origine questo metodo veniva usato da Veldman per favorire le relazioni, il rapporto tra genitori e figli alla nascita e nel periodo post-natale. Da circa venti anni questo approccio viene applicato anche nella fase finale della vita. Mi sono chiesta se il massaggio bioenergetico neonatale, praticato nel nostro modello di riferimento, possa essere strumento analitico anche per gli adulti. Credo che l’integrazione tra alcune tecniche come la stimolazione basale, le conoscenze dei vari livelli corporei, le conoscenze neuroscientifiche legate all’importanza del contatto epidermico, possano, un domani, porre le basi per una pratica strutturata. Ad esempio, con una persona avente una patologia neuro-degenerativa allo stadio terminale, nel momento in cui nemmeno i farmaci sembrano fare effetto ed è dubbia anche la consapevolezza, non potremmo dunque servirci dei canali sensoriali per entrare in contatto con lei? La stanza di degenza può divenire un luogo dal quale si può uscire pieni di angoscia, di senso di impotenza e di inutilità, con l’impressione di non riuscire a comprendere, di non riuscire a stare vicino, di non riuscire a fare nulla.
Si può invece stare accanto, leggere ad esempio un libro che può evocare frammenti della sua storia o di ciò che lo ha appassionato per anni, prendere le mani di quella persona dal corpo molto rigido, con gli arti superiori contratti che premono sul petto ricurvo anch’esso, e leggere. La voce può divenire leggera melodia simil canto, che accompagna il tocco armonico delle mani. A poco a poco la contrattura muscolare si può fare più lieve, il respiro meno affannoso, gli occhi piano piano si chiudono, in pace.
Si comprende che forse non serve capire, ma stare e sentire ciò che in quella stanza accade. Sia il contatto epidermico, prima delle mani e successivamente sul petto, attraverso la nostra lente, sono punti di contatto e di relazione con l’altro. Esperienze come quelle sopra riportate partono da un’idea di accompagnamento che non è solo accompagnamento negli ultimi istanti, ma come un accompagnamento alla Vita. Infatti per molti, sia ospiti, sia familiari, l’istituzionalizzazione porta già con sé i vissuti di minaccia della perdita, di lutto: in analisi Reichiana, connotiamo questo come un passaggio, che implica una separazione che approda ad altro.
Le due paure principali delle persone che stanno per morire sono legate al dolore fisico prima e durante e dell’abbandono/senso di solitudine. Aggiungerei anche il timore dell’ignoto, dello sconosciuto. Si evidenzia il pensiero in base al quale, se siamo stati capaci di nascere saremo anche capaci di morire e di affrontare i passaggi, che come ogni passaggio crea turbamento. È importante sentire che, come siamo stati accolti alla nascita, cosi potremmo anche sentirci accolti e supportati nel morire.
La relazione, come uno dei principi attivi dell’Analisi Reichiana Contemporanea, anche in questi contesti è fondamentale. Una presenza che sa di Vita e che possa dare un senso al tempo vissuto nel presente, per avere meno rimpianto del passato e meno timore del futuro, nella certezza di aver vissuto quanto meglio possibile, pacificandosi con faccende irrisolte e trovando la pace.
Lo storico francese Philippe Ariès, nel sul libro Storia della morte in Occidente (1998), ci aiuta a percorrere i cambiamenti degli atteggiamenti verso la morte nel corso dei secoli. Durante il Medioevo la morte rappresentava un fatto inerente alla vita e quindi normale, si viveva pubblicamente, era ritualizzato (diffusa era la letteratura in merito all’Ars morendi, piccoli manuali che preparavano le persone e i familiari al morire bene).
Con gli anni si è assistito sempre di più ad una demonizzazione della morte, ad un occultamento di tale evento, che viene vissuto in modo sempre più privato e sempre più nascosto, come se nel morire vi fosse una sorta di colpa o responsabilità, un fallimento. La morte ci fa paura: in un mondo sempre maggiormente assoggettato all’apparire e alla giovinezza, la morte potrebbe giungere come uno schiaffo e riportarci alla consapevolezza della nostra caducità. Ariès la denomina morte proibita, per segnalare il divieto di base, dato alla persona che sta morendo, ma anche alla società e ai familiari, di poter essere turbati o di esperire emozioni forti, quasi come fossero insostenibili.
Secondo Saunders (2008), ciò che rende l’uomo uomo sono le relazioni e alla comparsa della malattia sono proprio queste che spesso ne risentono: per un fisico debilitato, per la necessità di numerosi ricoveri o di una residenzialità, per il timore della malattia. E nel turbinio di questi vissuti sono coinvolti sia la persona con malattia sia i familiari. Questo medico sottolinea l’importanza di porre in parole ciò che sta accadendo. Prendendo le mosse da tali riflessioni, credo sia importante porre lo sguardo, includere gli occhi sullo scenario che si pone in essere.
Marie de Hennezel (1996), spiega come sia importante che i sentimenti e il dolore della persona che sta per morire vengano ascoltati e che egli possa esplicitarli. Spesso succede che il familiare non sia pronto ad accogliere tutto ciò. L’autrice racconta di un episodio in cui una donna che stava per morire era in uno stato di agitazione molto forte e la figlia non sapeva come fare per contenerla. Al che l’operatore si avvicina e la guarda negli occhi.
La donna dichiarò di essere consapevole di stare per morire e l’operatore le disse che tutto il personale e la figlia erano lì per accompagnarla fino alla fine. L’operatrice ha convalidato l’esperienza soggettiva con l’esplicitazione di una presenza vitale. La risposta della donna fu emblematica poiché si raddrizzò nel letto e si calmò, riprendendo lucidità. La figlia si avvicinò e la madre ripeté che stava per morire. La figlia disconfermò quanto detto. Intervenne l’operatore che disse che la madre stava dicendo ciò che sentiva e che era importante ascoltarla e lasciare che potesse dire ciò di cui aveva bisogno. A quel punto la figlia pianse e la madre dettò le sue volontà, più lucida e padrona di sé stessa.
Marie de Hennezel riferisce che una delle cose che fa soffrire di più le persone è non poter annunciare ai suoi cari che sta per morire. Sentendo venire la morte, chi non ne può parlare, né condividere con gli altri quello che gli ispira la prossimità di quel momento supremo, spesso non ha altra via d’uscita che la confusione mentale, il delirio, o addirittura il dolore, che almeno consente di parlare di qualcosa. Diviene fondamentale condividere con il familiare l’importanza della vicinanza, della relazione, dei gesti che può compiere con il proprio caro (tenersi per mano, bagnare le labbra screpolate, asciugare la fronte intrisa di sudore, pregare insieme). La gestualità dona al familiare la possibilità di essere in comunione con il proprio caro fino agli ultimi istanti di vita. Un gesto di accompagnamento, soprattutto nella stanza del morente, potrebbe consistere nel posare una mano dietro la schiena, all’altezza di una delle due scapole. Credo sia un punto di giusto contatto. La mano che si posa sulla scapola probabilmente carica di timori, paure, pesi, che funge sia da sostegno, ma anche come spinta: un richiamo sia alla muscolarità, ma anche una mano calda e accogliente che sostiene.
Percorsi con i familiari
Quasi tutti i familiari condividono il sentire comune che il proprio caro sia anagraficamente o per patologia nell’ultima fase della vita biologica. Le fragilità maggiori sono legate all’accettazione della patologia, più che alla morte stessa. Ciò che crea maggiore dolore è la sofferenza psichica e fisica del congiunto. Due sono gli interventi possibili in tale ambito:
- Sostegno alla singola famiglia
- Gruppi dei familiari incentrati su:
- spiegazione e conoscenza della patologia.
- modalità di relazione.
- modi di entrare in dialogo e in comunicazione con il proprio caro. È importante porre l’accento sull’importanza della gestualità del corpo: gesti di accompagnamento, sorrisi, mimica, il tocco, il tatto, la prossimità fisica.
Gruppi di confronto, partecipazione, conforto, scambio emotivo per portare i familiari a sperimentarsi, imparare. Il gruppo, come sostiene Giorgio Nigosanti (2017), può dare la possibilità al familiare di non sentirsi solo nel proprio dolore per il proprio caro e crea un senso di comunione tra le famiglie coinvolte nella stessa problematica. Queste possono conoscersi, confrontarsi, creare legami, scaricare l’ansia, in un contesto protetto che possa contenere ed abbracciare tutto questo.
Percorsi con il personale
Si sottolinea l’importanza di incontrare anche il personale, attraverso interventi di supporto e sostegno in itinere e possibilità di confronto più strutturate: incontri di discussione dei casi e incontri formativi incentrati sul benessere del personale stesso. Sia nella quotidianità, sia negli incontri dedicati al personale, gli obiettivi sono molteplici: cercare insieme le risposte alle domande implicite ed esplicite sia del personale stesso, sia dei residenti, cogliendo modalità di relazione con gli ospiti e tra i colleghi più funzionali; offrire al personale uno spazio in cui è possibile porre lo sguardo, raggiungere una consapevolezza maggiore di sé all’interno del contesto lavorativo. Un aspetto centrale nella presa in carico del personale riguarda l’aspetto del vivere quotidianamente esperienze di sofferenza e di morte: avere a che fare con esse tutti i giorni rientra tra le pratiche routiniane giornaliere, ma coinvolgono sia sul piano emotivo sia sul piano relazionale.
Diviene fondamentale far permeare all’interno di questi luoghi il valore e l’unicità della persona. Più il personale è capace di affermare il valore del paziente, di vedere la persona che è o che è stata, nella sua unicità, piuttosto che la sola malattia, tanto più è probabile che il senso di dignità del paziente sia sostenuto e conservato. Non essere trattati con dignità e rispetto può minare il senso del sé e del valore della vita, esponendo il paziente al rischio di sentirsi un peso per gli altri, di perdere la speranza e di mettere in forse le ragioni del continuare ad esistere.
Si pone l’accento sul come più che sul che cosa: infatti molte delle parole potrebbero essere equivocate, mal interpretate, ma l’incontro con il corpo non inganna e restituisce alla persona quella bellezza del gesto quotidiano e della bellezza di essere persona in quanto tale, al di là dei dolori che sperimenta. È quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione della cura che comprenda un approccio corporeo nelle sue diverse manifestazioni: tattile, visivo, vocale, empatico. Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? L’approccio corporeo permette agli ospiti di sentirsi integri e pienamente vivi.
Accanto al rispetto e alla tutela della dignità dell’ospite, è importante che il personale preservi rispetto e tutela della propria salute e benessere. In uno dei suoi scritti Marie de Hennezel (1998) sottolinea l’importanza di contattare la consapevolezza del nostro pensiero rispetto alla morte, che è ontologico e dentro ciascuno di noi. Contattare tale consapevolezza e il possibile timore può aiutare il personale nella relazione con la persona sofferente, per esserci senza farsi sopraffare.
Bibliografia
Ariès, P. (1998), Storia della morte in Occidente. Milano: Bur.
De Hennezel, M. (1996), La morte amica. Le lezioni di vita di chi sta per morire. Milano: Rizzoli.
De Hennezel, M., Leloup, J.Y. (1998), Il passaggio luminoso. L’arte del bel morire. Milano: Rizzoli.
Ferri, G. (2017), Il corpo sa. Storie di psicoterapie in supervisione. Roma: Alpes Italia
Nigosanti, G.A. (2017), Analisi corporea in gruppo. L’approccio reichiano. Roma: Alpes Italia.
Saunders, C. (2008), Vegliate con me. Hospice: un’ispirazione per la cura della vita. Bologna: EDB.
Veldman, F. (2007), Haptonomie, Science de l'Affectivité: Redécouvrir l'humain. Parigi: PUF.
[*] Psicologa psicoterapeura reichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.