Numero 1/2023

CORPO ED ESISTENZA

 

BODY AND EXISTENCE

DOI 10.57613/SIAR 35

 

Marcello Mannella[*]

 

 

 

Abstract

     Il concetto di corpo evidenziato è quello di corpo vissuto, che acquista coscienza di sé e crea senso abitando il mondo. La capacità dell'uomo di produrre senso è già iscritta nel carattere aperto della sua biologia. È definitivamente superata la dicotomia cartesiana fra corpo e mente, così come quella fra natura e cultura. Uomo (unità di corpomente) e mondo sono costitutivamente intrecciati ed è attraverso il loro continuo implicarsi che la nostra vita si fa storia, le nostre esperienze, cioè, si intrecciano e si raccordano in una trama di senso.

 

Parole chiave

     Corpo – esistenza - mente enattiva – autopoiesi – empatia.

  

Abstract

      The concept of body that is pointed out is the concept of experienced body, that acquire self knowledge and create sense living the world. The ability of the man to create sense is already written in the open trait of its biology. The Cartesian dichotomy between body and mind is definitively overcome, so as the one between nature and culture. Man (body-mind unit) and world are constitutively linked together and their constant involvement makes our life become history, in other words, our experiences weave and join up together in a meaningful plot.

 

Keywords

     Body – existence – enactive mind – autopoiesis – empathy

 

 

 

La coscienza è l’inerire alla cosa tramite il corpo.

Un movimento è imparato quando il corpo l’ha compreso, cioè quando

 l’ha assimilato al ‘suo’ mondo, e muovere il proprio corpo

significa protendersi verso le cose attraverso di esso.

 

M. Merleau-Ponty

 

 

L’homo sapiens si distingue dal resto della creazione animale

per il fatto di essere sottodefinito e sottodeterminato;

è perciò condannato alla trascendenza, a sfidare lo status quo,

 a raggiungere ciò che sta oltre e al di sopra.

 

Z. Bauman

 

 

L’apertura ontologica dell’uomo. Oltre la dicotomia natura-cultura

     Uno dei costrutti culturali dominanti da tempo in occidente è quello che afferma la prossimità dell’uomo all’animale e che considera il primo solo quantitativamente diverso dal secondo. A partire dal XIX secolo, ad esempio, sulla scorta dell’evoluzionismo darwiniano si è ritenuto che l’uomo fosse il prodotto più alto dell’evoluzione: l’umanità avrebbe in maniera potenziata caratteristiche, come ad esempio l’intelletto e il linguaggio, che in qualche misura appartengono già alle specie inferiori. La dominanza di tale costrutto non è stata del resto incontrastata. Sebbene non l’abbia esplicitato, già Freud aveva sostenuto la differenza qualitativa fra l’uomo e l’animale. Operando la distinzione fra istinto (instinkt) – proprio degli animali – e pulsione (trieb) – propria degli uomini – Freud ha mostrato il carattere aperto della ontologia umana.

     L’istinto dà luogo a comportamenti stabili, definiti su base ereditaria. L’istinto è univoco così come univoca è la sua mèta; è rigido al punto da non poterne essere differita la scarica. La pulsione, pur essendo anch’essa ereditariamente determinata, presenta una carica energetica ridotta, ed è suscettibile di essere modulata dall’esperienza individuale. La pulsione è plastica, non univoca – le pulsioni si possono fondere (impasto pulsionale) – può essere sublimata; le sue mète possono essere molteplici (dalla soddisfazione orgastica alle creazioni artistiche, morali e spirituali), la sua scarica può essere procrastinata. La pulsione è al limite fra il somatico e lo psichico, un fenomeno cioè che non ha un carattere puramente biologico, ma si costituisce nell’incontro fra natura e cultura.

     La differenza radicale fra l’uomo e l’animale è stata sostenuta esplicitamente e con forza nei primi decenni del ‘900 da quell’esperienza di pensiero che va sotto il nome di antropologia filosofica[1]. Per questa tradizione di pensiero l’uomo ha sul piano biologico qualcosa in meno rispetto all’animale.

     L’uomo è innanzitutto carente sul piano morfologico. Il suo corpo è esposto ai rigori del clima perché manca di rivestimento pilifero; è privo di organi di difesa e di attacco, i suoi organi di senso non sono particolarmente acuti. Si può dire che “egli consta di una serie di non specializzazioni che sotto il profilo dell’evoluzione biologica appaiono primitivismi: la sua dentatura, ad esempio, ha una continuità primitiva e una indeterminatezza di struttura che non le consente di essere né una dentatura da erbivoro, né una dentatura da carnivoro, cioè da animale predatore. Rispetto alle grandi scimmie, che sono arboricoli ad alta specializzazione dotati di braccia iper sviluppate atte all’arrampicata, di piedi prensili, di vello e di possenti canini, l’uomo è in quanto essere naturale irrimediabilmente inadeguato. Egli è di una sprovvedutezza biologica unica” (Gehlen, 1983, p.60).

     La mancanza di specializzazione della specie umana è spiegata da molti anatomisti e antropologi fisici in riferimento al principio del “ritardamento” di Bolk[2], cioè la peculiarità della nostra specie di conservare in parte i caratteri morfologici fetali. Ed è proprio questa sua peculiarità a rendere necessari un lungo tempo di sviluppo extrauterino[3], l’eccessivo protrarsi dell’infanzia[4], la durata straordinaria della sua vita, così come la mancanza di specializzazioni del suo corpo.

     Solo dopo circa un anno, e grazie agli influssi determinanti dell’ambiente familiare, il neonato acquisisce i caratteri che specificano la nostra specie: l’andatura eretta e la facoltà del linguaggio. Natura e cultura nell’essere umano sono dunque profondamente intrecciate[5].

     La mancanza di specializzazioni, se da una parte rende precaria l’esistenza dell’uomo in quanto l’indeterminatezza dei suoi comportamenti non favorisce l’adattamento dell’uomo ad uno specifico habitat, dall’altra, lo dispone a progettare la propria esistenza. Biologicamente costretto a dominare la natura, l’uomo ha dato creativamente origine ad una molteplicità di forme culturali e sociali, riuscendo ad abitare ogni luogo del mondo.

     Di più: la carenza istintuale non rende soltanto incerta e insieme poietica la relazione dell’uomo con il mondo, ma lo pone anche di fronte al compito di strutturare la propria interiorità. Al contrario delle specie animali che processano dell’ambiente soltanto gli stimoli con valore adattivo, la vita dell’uomo è caratterizzata da una continua eccitabilità (“eccesso pulsionale” l’ha definita Scheler) a causa del profluvio di stimoli che gli si fanno incontro dal mondo esterno (Scheler, 1998).

     L’uomo non è allora soltanto l’animale più razionale, ma anche quello più emotivo e pertanto è posto di fronte al compito di dare forma alla propria interiorità costitutivamente indefinita. Inibire, negare, procrastinare, sublimare, trasformare e dare forma ai contenuti del mondo interno, è un compito che caratterizza l’intero arco della vita umana. L’uomo, d’altra parte, può far fronte alla complessità della sua esistenza, può cioè assumersi il compito tanto di progettare i suoi comportamenti, tanto di dare ordine al proprio mondo interno, perché al contrario degli animali non soggiace all’immediatezza del sentire. L’animale vive al centro del proprio corpo, nel qui e ora, è cioè assolutamente assorbito con tutto il proprio essere dall’esperienza che gli si fa incontro; l’uomo ha invece la possibilità di porre distanza nei confronti dei propri vissuti.

     Plessner ha definito l’uomo “un essere eccentrico” (Plessner, 2006), in grado, cioè, di assumere una posizione meta osservativa, e pertanto in grado di non soggiacere all’immediatezza del sentire e dell’agire. Se ciò non fosse stato probabilmente si sarebbe estinto già da gran tempo[6].

     Questo non significa ovviamente che l’esistenza umana debba fondarsi sul primato della ragione, sulla separazione di capire e sentire; tutt’altro, le due facoltà sono strettamente connesse e si richiamano continuamente. Sul piano neurofisiologico, il cervello limbico ha un ruolo fondamentale nella struttura cerebrale. Le parti più recenti del cervello si sono sviluppate a partire da esso, cosicché le aree emozionali sono collegate da una miriade di interconnessioni neuronali a tutte le zone della neocorteccia influenzandone di fatto le elaborazioni. Intelligenza razionale ed emotiva sono profondamente connesse ed egualmente importanti al fine di poter condurre la nostra vita.

 

Corpo e produzione di senso

  

Si può dire che vivere è conoscere (vivere è un’azione

efficace nel dominio dell’esistenza dell’essere vivente)

 

Maturana, F. Varela

 

     L’indeterminatezza biologica non costituisce dunque affatto una diminutio dell’uomo. Tutt’altro!!! Fra le molteplici implicazioni positive, sottolineo quella che mi sembra fra le più decisive. Ci aiuta a superare la tradizionale opposizione di corpo e anima/mente che ha dominato da gran tempo in occidente. Il corpo umano non è infatti né materia opaca o caotica come sostenuto da Platone, né realtà meccanica come per Cartesio[7].

     Corpo/cervello/mente (e ambiente, per quanto riguarda soprattutto la realtà della mente autocosciente) sono in continuità e fin dall’inizio embricati. Il cervello è una realtà stratificata caratterizzata dalla progressiva comparsa di strutture anatomiche e processi mentali più complessi fino alla comparsa di una mente autocosciente. Corpo, emozioni e ragione non sono né in contrapposizione né separate; la mente ha un’origine corporea, bottom-up[8]. Comprendere il mondo non è dunque una prerogativa da attribuirsi alla sola res cogitans, al puro intelletto. Comprendere è sempre un’esperienza psicocorporea che si realizza a diversi livelli di complessità: dalla capacità del corpo di avvertire se stesso, i propri stati di benessere o di malessere di fondo, alla coscienza immediata degli oggetti del mondo, fino alle operazioni più astratte della mente come la rappresentazione scientifica o spirituale dell’esistenza.

     L’attuale ricerca neuroscientifica sostiene il carattere incarnato ed enattivo della mente: percepiamo e comprendiamo la realtà attraverso la continua attività corporea. È facendo esperienza motoria del mondo che noi sviluppiamo quegli stessi principi che guidano la nostra attività di pensiero; è agendo che noi sperimentiamo il rapporto causale e spazio/temporale dei fenomeni. L’Io è dunque innanzitutto corporeo e appare cruciale il ruolo “giocato dal sistema motorio nel fornire ‘i mattoni’ con cui possono essere costruite abilità sociali cognitive più sofisticate” (Oliverio, 2004).

IMG 20230611 WA0013Foto di Laura De Strobel     Un altro decisivo contributo per il superamento dell’epistemologia cartesiana e riprova di quella che ho chiamato la soggettività[9] del corpo, è rappresentata dalla scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006), che attesta ancora una volta il carattere corporeo della cognizione.

     I neuroni specchio pur appartenendo al sistema motorio non sono deputati al solo movimento, ma rispondono a stimoli visivi. Se osservo qualcuno afferrare un bicchiere, la comprensione dell’azione è immediata, perché i miei neuroni specchio si dispongono a compierla essi stessi. L’osservazione dell’azione altrui induce, insomma, in me l’attivazione di quello stesso circuito motorio deputato all’attuazione di quell’azione. Il mio corpo comprende l’intenzione dell’altro perché ne simula l’azione e coglie dunque direttamente la finalità del suo agire.

     I meccanismi specchio sono anche alla base della nostra capacità di sentire e condividere le emozioni altrui. È soprattutto attraverso l’osservazione della mimica facciale che i muscoli facciali dell’osservatore si attivano in maniera congruente. La relazione empatica sarebbe interattiva e strettamente legata al sistema senso-motorio. La comprensione degli stati d’animo non è allora – come da tempo si credeva – un processo mentalistico (approccio cognitivista classico) che a che fare con le funzioni cognitive superiori. Gli stati d’animo altrui innanzitutto si comprendono enattivamente; è solo su questa capacità che si fonda la possibilità della loro ulteriore e più complessa comprensione.

     Il radicamento della mente nel corpo – e dunque anche della mente autocosciente caratterizzata dalle funzioni complesse del linguaggio, del pensiero, dell’attività simbolica, che risentono maggiormente degli influssi della cultura – comporta il riconoscimento della continuità fra corpo/mente/ambiente sociale e culturale.

     Ad essere superata è la tradizionale concezione secondo la quale gli stati mentali siano assolutamente interni all’organismo: “Dove finisce la mente, e dove comincia il resto del mondo? […] L’idea è dunque che in alcuni casi il veicolo della cognizione umana non è solo il cervello, né il cervello in associazione al corpo, ma un sistema più ampio che comprende mente/cervello, corpo e ambiente” (Di Francesco, 2009, p.175).

     Con quest’ultima affermazione siamo prepotentemente proiettati nelle coordinate del pensiero sistemico. Per tale visione, la realtà si compone di una rete di relazioni. I sistemi viventi – una totalità di elementi integrati in equilibrio dinamico che interagiscono continuamente secondo una causalità complessa - non sono considerati a se stanti, ma sempre in connessione con l’ambiente. Nello stesso tempo, essi sono autoreferenziali, nel senso che l’ambiente può determinare soltanto delle perturbazioni, ma è poi il sistema a scegliere fra i diversi stimoli e ad elaborarli in maniera autonoma.

     Per Maturana e Varela la vita è cognizione. Il comportamento degli esseri viventi – anche in assenza di un sistema nervoso centrale - corrisponde alla capacità di mantenere la propria organizzazione governando le perturbazioni che provengono dall’ambiente. La conoscenza è, per loro, “azione effettiva, che permette ad un essere vivente di continuare la sua esistenza in un determinato ambiente, toccando con mano il suo mondo” (Maturana, 2003, p.49). “Si può dire che vivere è conoscere (vivere è un’azione efficace nel dominio dell’esistenza dell’essere vivente). (Ibidem, p. 154).

     Maturana e Varela hanno definito i sistemi viventi macchine auto poietiche (Maturana, Varela, 1985). L’autopoiesi è il processo attraverso cui tutte le componenti del sistema contribuiscono alla trasformazione del sistema stesso. Tale concetto mette in evidenza i caratteri di plasticità della struttura, di flessibilità nella relazione con l’ambiente e di autonomia organizzativa. Il concetto di autopoiesi recupera e riconosce ai corpi quella creatività (soggettività) che gli era stata negata dalla considerazione cartesiana in termini di res extensa, di corpo macchina.

     Il concetto di corpo che è stato evidenziato non è dunque il concetto di corpo biologico, mero meccanismo naturale, ma quello di corpo vissuto, di corpo inteso come intenzionalità, che acquista coscienza di sé e crea senso abitando il mondo. La capacità dell’uomo di essere produttore di senso è dunque già iscritta nel suo corpo, nel carattere aperto della sua biologia. È il corpo che ci dà la possibilità di avere un mondo. È definitivamente superata la dicotomia cartesiana fra corpo e mente, così come quella fra natura e cultura. Uomo (unità di corpomente) e mondo sono costitutivamente intrecciati ed è attraverso il loro continuo implicarsi che la nostra vita si fa storia, le nostre esperienze, cioè, si intrecciano e si raccordano in una trama di senso.

[1] L’antropologia filosofica è una esperienza di pensiero che si è affermata nella prima metà del novecento. Il grande sviluppo delle cosiddette scienze umane aveva portato da una parte alla conoscenza e all’approfondimento dei molteplici aspetti dell’esistenza umana, (biologico, psicologico, linguistico, sociale, economico) ma nello stesso tempo aveva comportato una perdita di unitarietà e di una chiara definizione della sua immagine e specificità. L’antropologia filosofica nasce intorno all’esigenza di un’integrazione delle varie conoscenze settoriali per restituire all’uomo un’immagine globale e sintetica di sé. Fondatore della disciplina è considerato Max Scheler (1847 – 1928). Helmut Plessner (1892 – 1985) ed Arnold Gehlen (1904 – 76) ne sono i più importanti continuatori.

[2] Bolk giudica che proprio per questo l’uomo occupi un particolare posto nel mondo. Tra le cosiddette sopravvivenze fetali, o primitivismi, egli annovera: 1) l’ortognatismo, ossia la disposizione della dentatura nella parte inferiore della scatola cranica, sotto al cervello; 2) la mancanza del rivestimento pilifero; 3) la depigmentazione della cute; 4) la forma dei padiglioni auricolari; 5) il notevole peso del cervello e il conseguente ritardo nella saldatura delle suture craniche; 6) la struttura della mano e del piede; 7) la forma del bacino e la posizione dei genitali nella femmina. (Bonito Oliva R., (a cura di), Bolk Louis. Il problema dell'ominazione, Roma, 2006, Derive Approdi).

[3] Lo zoologo Portmann ha definito il neonato “un parto prematuro normalizzato, tipicizzato”, e considera il suo primo anno di vita “un anno embrionale extrauterino” A differenza di ciò che accade nella maggior parte delle specie animali, i cui nuovi nati sono in grado di sopravvivere autonomamente a poche ore dalla nascita, nell’uomo la maturazione delle funzioni motorie e percettive si completa fuori dell’utero nell’ambiente familiare e sociale. Solo dopo circa un anno il neonato e grazie agli influssi determinanti dell’ambiente familiare e sociale, acquisisce i caratteri che specificano la nostra specie: l’andatura eretta e la facoltà del linguaggio. (Portmann, 1989).

[4] Maffei sostiene che “Il grande trucco della prolungata infanzia dell’uomo creò il suo grande cervello; infatti il periodo di grande plasticità dell’uomo, periodo critico, dura parecchi anni, mentre quello degli animali si misura in settimane o mesi. Insomma l’embrione uomo decise con grande coraggio di restare per una decina d’anni a formare il suo cervello sia funzionalmente che strutturalmente; per fortuna l’evoluzione ha reso possibile questa scelta inventando la paziente cura dei genitori e in sostanza la famiglia. […] L’evoluzione ha scelto, nella costruzione del cervello umano la lentezza, mentre per gli altri animali quella della rapidità, ed è forse per questo che molte risposte del sistema nervoso rapido dell’uomo assomigliano a quelle degli altri animali” (Maffei, 2014, pp. 22/3).

Secondo Damasio “L’infanzia e l’adolescenza della specie umana sono di una lunghezza esorbitante perché l’educazione dei processi non coscienti del nostro cervello e la creazione, all’interno dello spazio cerebrale non cosciente, di una forma di controllo che possa operare più o meno fedelmente secondo le intenzioni e gli obiettivi della coscienza richiedono un tempo molto lungo. Possiamo descrivere questa lenta educazione come un processo di parziale trasferimento del controllo cosciente a un server non cosciente. Il valore della coscienza non è sminuito dalla presenza di processi non coscienti, anzi la sua portata ne risulta amplificata” (Damasio, 2012, p. 336).

[5] La cultura non nasce, dunque come comunemente si pensa, dopo che la natura ha fatto il suo corso. Per gli antropologi questo è vero anche sul piano dello sviluppo filogenetico. Secondo Geertz è erronea la tesi “che ritiene l’evoluzione mentale e l’accumulazione culturale due processi completamente separati, per cui il primo sarebbe stato essenzialmente completato prima che iniziasse il secondo” (Geertz, 1998, p. 93). A suo parere è evidente “che non solo l’accumulazione culturale era avviata ben prima che cessasse lo sviluppo organico, ma che, molto probabilmente, questa accumulazione ebbe un ruolo attivo nel modellare le fasi di sviluppo finali […] Poiché la fabbricazione di arnesi valorizza l’abilità manuale e la capacità di progettare, la sua comparsa deve aver influenzato lo spostamento delle pressioni selettive così da favorire lo sviluppo del proencefalo, come fecero con tutta probabilità i progressi dell’organizzazione sociale, nella comunicazione e nella regolamentazione morale che – vi è ragione di credere – avvennero pure durante questo periodo di sovrapposizione del mutamento culturale e di quello biologico. […] Il punto è che la generica costituzione innata dell’uomo moderno (quella che in tempi più semplici si chiamava ‘natura umana’) appare ora essere un prodotto sia culturale che biologico, dato che è probabilmente più corretto pensare a gran parte della nostra struttura come risultato della cultura che pensare a uomini anatomicamente simili a noi che scoprono lentamente la cultura” (Ibidem, pp. 85/6).

[6] I biologi evoluzionisti sostengono che le emozioni hanno avuto un ruolo fondamentale per la sopravvivenza e l’evoluzione della nostra specie, guidando e orientando il nostro comportamento in situazioni e frangenti che non potevano essere risolti dal solo intelletto; in particolar modo in tutte quelle situazioni critiche, implicanti a volte il rischio della vita, che richiedendo una decisione immediata per la loro risoluzione, non potevano che fondarsi sulle reazioni automatiche impresse nel nostro sistema nervoso. Nello stesso tempo fanno notare che quelle reazioni, plasmate dall’evoluzione nel corso di centinaia di migliaia di anni, non sono oggi più adeguate alla risoluzione di situazioni e problematiche legate allo sviluppo estremamente complesso della civiltà umana che ha avuto un’improvvisa accelerazione nel corso degli ultimi 10.000 anni.

[7] La visione metafisica di Platone, imperniata sulla pienezza ontologica del mondo spirituale delle idee, ha originato il giudizio valoriale negativo del mondo sensibile, mentre in ambito antropologico ha comportato la separazione/opposizione fra l’anima e il corpo. L’anima è stata intesa come un’istanza libera e coscienziale, il corpo come opaco, luogo di disordine, attraversato da impulsi ciechi e prorompenti. In età moderna la svalutazione del corpo ha ricevuto il decisivo suggello dalla filosofia di Cartesio. Il filosofo sostenendo la realtà di due sostanze separate e incommensurabili – la res cogitans e la res extensa – privilegiando e considerando la prima fondamentale per la vita dell’uomo per i suoi caratteri spirituali di autocoscienza e libertà, capace di cognizioni chiare e distinte, ha definitivamente decretato la svalutazione del corpo, ridotto al rango di realtà oggettiva, puramente meccanica.

[8] Damasio ha corroborato sul piano sperimentale ciò che ormai da tempo, antropologi, filosofi, medici, psicologi e psicoterapeuti andavano sostenendo: l’origine corporea – lo sviluppo bottom-up – della mente. Per sostenere le sue tesi, Damasio ha preso in considerazione non soltanto la neocorteccia, ma l’interezza dell’encefalo e ha attribuito al midollo allungato un ruolo centrale. Parte del tronco encefalico, posto alla base del cranio, il midollo allungato è una struttura primitiva, zona di transito di un costante flusso di informazioni da e verso il corpo. Per suo tramite dunque il sistema nervoso centrale è neuralmente connesso con ogni recesso del corpo. (Damasio, 1995).

[9] Il termine soggetto ha assunto nella storia della filosofia significati diversi, spesso assai lontani. Inizialmente aveva il significato di sostrato, di ciò che sta sotto e sostiene. In questo senso, in Aristotele soggetto è il sostrato materiale che sorregge una forma (un’essenza che specifica quella materia in un determinato ente). In età moderna, il concetto ha assunto un significato storicamente decisivo. Con Cartesio viene ad indicare ciò che è attività spirituale, autocosciente, pensante, di contro ad oggetto, a ciò che è materiale, oggettivo, inerte, meccanico. Sul piano ontologico, il filosofo ha sostenuto la realtà di due sostanze separate e incommensurabili – la res cogitans e la res extensa. Nella persona umana le due realtà, altrimenti incomunicabili, si incontrano. Ma soltanto la prima – la res cogitans – per i suoi caratteri spirituali è fondamentale per la vita dell’uomo. La filosofia di Cartesio ha dunque decretato la svalutazione del corpo ridotto al rango di realtà oggettiva, puramente meccanica.

Bibliografia

Bonito Oliva R., (a cura di), Bolk Louis. Il problema dell'ominazione. Roma: Derive Approdi, 2006.

Damasio, A. (1985), L’errore di Cartesio. Milano: Adelphi.

Damasio, A. (2012), Il sé viene alla mente. Milano: Adelphi.

Di Francesco, M. (a cura di), (2009). Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io. Milano: Bruno Mondadori.

Geertz, C. (1998), Interpretazioni di culture. Bologna: il Mulino.

Gehlen, A. (1983), L’Uomo La sua natura e il suo posto nel mondo. Milano: Feltrinelli.

Maffei, L. (2014), Elogio della lentezza. Bologna: Il Mulino.

Maturana, H., Varel, F. (2003). L’albero della conoscenza. Milano: Garzanti.

Maturana, H, Varela, F. (1985). Autopoiesi e cognizione. Venezia: Marsilio.

Oliverio, A. (2004), Prima lezione di neuroscienze. Bari: Laterza.

Plessner, H. (2006), I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica. Torino: Bollati Boringhieri.

Portmann, A. (1989), Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia. Milano: Adelphi.

Rizzolatti, G., Sinigaglia, C. (2006), So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio. Milano: Raffaello Cortina editore.

Scheler, M. (1998), La posizione dell’uomo nel cosmo. Roma: Armando ed.

[*] Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta S.I.A.R., Membro dei Comitati Scientifico e Direttivo della S.I.A.R., Membro del board scientifico della collana CorporalMente dell’Editrice Alpes, Membro della redazione della Rivista PsicoterapiaAnaliticaReichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via Valadier, 44 -00193 Roma.

Share