Numero 1/2024
Il disturbo di attacco di panico
Giuseppe Ciardiello*
Introduzione
Con questo articolo si intende sostenere l’idea che il comportamento in caso di panico è conseguente ad un certo disturbo relazionale realizzatosi nella prima infanzia e, dato che si esprime in maniera privilegiata col corpo, è agendo sul e con il corpo, che va curato. La conseguenza di tali presupposti è che la risoluzione del comportamento conseguente a questo disturbo, necessita dell’impiego di una relazione che consenta esperienze adeguate e mirate. In psicoterapia la relazione più efficace è quella che utilizza strumenti esperienziali per cogliere le dimensioni psicologiche correlate al vissuto panico.
“Questo lavoro è terapeutico, credo, nella misura in cui
permette che venga vissuta pienamente l’esperienza…”
(Winnicott, 1971, pag. 84).
Premessa
Questo lavoro è il frutto di diversi anni di impegno volti a sintetizzare un intervento psicoterapeutico finalizzato alla risoluzione dei disturbi di panico partendo dai presupposti dell’Analisi Reichiana. In analisi l’atteggiamento dell’operatore può non entrare nel merito della modifica del comportamento agito mentre in psicoterapia il suo impegno è volto innanzitutto alla risoluzione del sintomo.
Il fatto che nel panico le persone si presentano con un’urgenza per la quale è necessaria una risposta immediata, comporta la necessità di individuare una serie di strumenti capaci di incidere velocemente sugli aspetti problematici. Per noi vegetoterapeuti è allora necessario delineare modalità di utilizzo di esercizi e acting validi ed efficaci nell’immediato; per questo è anche necessario individuare gli aspetti e le dimensioni del panico che possono essere modificati e le modalità con le quali potrà realizzarsi questa modifica.
La spettacolarità del disturbo da attacchi di panico (dap) ha sempre più spinto gli psicologi ad abdicare al tentativo di comprenderlo e delegare agli psichiatri, medici e neurologi il compito di spiegarlo. Tale atteggiamento porta in sé la convinzione di una genesi psichiatrizzante. In questo caso però la spiegazione psichiatrica è tautologica perché nel panico non c’è occorrenza evidente di una disfunzione biologica d’organo o di sistema, mentre l’osservazione clinica sembra autorizzare l’affermazione che il dap è la manifestazione comportamentale di un disturbo relazionale.
Oggi il dap si è imposto all’attenzione di tutti pretendendo una considerazione diversa da quella riservata all’ansia e ai sintomi fobici. Si è passati da un’ignoranza totale in cui non si conosceva nemmeno l’incidenza del disturbo, ad un interesse esteso in cui alcuni autori hanno realizzato diversi impianti esplicativi (Ferri, 2012; Giannantonio et al., 2009; Nardone, 2002; Infransca, 2011).
Come accadeva all’inizio del secolo scorso per i sintomi isterici, in questo disturbo s’impongono all’osservazione anche aspetti corporei e relazionali, aspetti che hanno stimolato l’attenzione dei gruppi di automutuoaiuto (ama) che, sostenuti dalle esperienze americane, si sono organizzati per rispondere ad una estesa domanda di contenimento e condivisione del disagio. In Italia l’esperienza dei gruppi ama, sempre relativamente al dap, è stata organizzata e gestita dalla lidap[1], associazione formatasi nel ’79 e che da allora coordina gruppi autogestiti.
Gli aspetti corporei del dap rendono le psicoterapie ad orientamento corporeo strumenti privilegiati d’intervento in quanto, per esempio, un aspetto interessante del dap è la difficoltà che hanno le persone che ne sono vittime ad individuare le proprie emozioni mentre privilegiano la descrizione del vissuto fisico e corporeo (la sensazione). La descrizione dei vissuti psicologici rimane generica, i termini sono massivi e cumulativi piuttosto che specifici e le sensazioni sono descritte come fossero emozioni. C’è una certa difficoltà a individuare termini adeguati per la descrizione dei vissuti anche se accompagnata da una notevole sensibilità a comprendere gli aspetti empatici.
Inoltre con queste persone i modelli narrativi di sé possono essere evidenziati e discussi e, in un tempo relativamente breve, è possibile pervenire anche ad un recupero delle funzioni integrative.
La domanda delle persone con disturbo di panico è sempre caratterizzata dall’emergenza. Queste persone, tenaci e forti, fin da piccoli si fanno carico di pesi enormi, di responsabilità e di oneri che potrebbero non essere loro, perché sono convinti di dovercela fare da soli e convivono con enormi sensi di colpa che li rendono incapaci di far valere i propri diritti. Quando si arrendono hanno bisogno di un intervento veloce ed efficace mentre una risposta analitica rischierebbe di rivelarsi incapace di cogliere il disagio immediato e di offrire validi occhiali interpretativi del vissuto corrispondente. Questo accade perché nel dap il malessere, pur non essendo a volte reale, è talmente vero da svuotare gli occhi.
La Vegetoterapia Analitico Caratteriale
Molto probabilmente la Vegetoterapia Caratteroanalitica (Vgt), (Navarro, 1998) è il primo vero strumento corporeo nell’ambito delle tecniche psicoterapeutiche. Ha visto la luce dopo parecchi anni di gestazione da che Reich si rese conto del fatto che le evenienze corporee sono equivalenti a quelle psichiche. Parliamo di Identità Funzionale (Mannella 2012, Ferri, 2013) e, ad oggi, la sua maggiore utilizzazione è nell’ambito dell’Analisi Reichiana.
La VgT Analitico Caratteriale si compone di una serie di movimenti (acting) che, con progressione cefalo caudale, percorrono tutto l’organismo in una forma gerarchicamente organizzata. Per ogni acting sono indagate le esperienze vissute, con attenzione particolare alle modalità soggettive di indagine, di vissuto e di relazione con il terapeuta.
L’attenzione ai vissuti e l’indagine che l’accompagna introduce implicitamente ad un aspetto particolare della psicoterapia, che è quello delle dimensioni psicologiche relative all’esperienza in corso. Per esempio, le prime fasi dell’approccio vegetoterapeutico, che includono il massaggio e che in genere sono impiegate per la definizione diagnostica, servono anche per capire come introdurre il lavoro sul corpo, in che modo la cosa può essere vissuta dal paziente e quale può essere il momento migliore per poterlo fare. Per decidere le modalità e il momento è necessario individuare le dimensioni che la persona dispiega nelle relazioni e, in particolare, nella sua relazione con il terapeuta. Le dimensioni psicologiche sono i vissuti che accompagnano i disturbi e che, nell’economia organismica, hanno carattere soggettivo perché sono anche i prodotti della storia individuale. In pratica corrispondono alle coloriture emozionali che ogni persona vive nell’esperienza, in relazione al proprio carattere, e derivano da implicite attribuzioni di senso e di valore alla realtà; quindi sono il frutto delle esperienze precedenti[2].
Dato che in ambito psicoterapeutico è necessario prestare attenzione al disagio immediato e a una sua veloce risoluzione piuttosto che agli aspetti caratteriali, come vegetoterapeuti, pur restando fedeli alla caratteristica principale del metodo che è quello analitico caratteriale, possiamo pensare a strategie alternative di intervento che guardino alle dimensioni psicologiche piuttosto che agli aspetti caratteriali. Tra l’altro per Federico Navarro la vegetoterapia è “…una metodica ricerca e non una tecnica, per conseguire la maturazione delle funzioni” (Navarro, 1998, pag. 32). Questo punto di vista rende possibile considerarla un metodo guida per l’individuazione, la progettazione e realizzazione di eventi esperienziali che, analoghi agli acting, possono essere comunque svolti in un setting terapeutico.
Le dimensioni psicologiche
Le dimensioni psicologiche corrispondono alle configurazioni psichiche e fisiche[3]. Rappresentano i vissuti corrispondenti alle esperienze di appoggio, equilibrio, abbandono, integrazione, tolleranza, attaccamento, dipendenza, forza, stabilità, consistenza, sostenibilità ecc. Le dimensioni psicologiche sono quindi aspetti della personalità che si organizzano in modo corrispondente al carattere. Le emozioni di base, rabbia, vergogna, paura, gioia e disgusto possono essere considerate gli apici di una piramide nel cui corpo si stratificano e si configurano le diverse dimensioni a seconda del carattere, per cui lavorare sulle dimensioni psicologiche vuol dire lavorare sulle diverse configurazioni che influiscono sul carattere in relazione all’emozione che le sovrintende.
Una delle dimensioni più importanti delle esperienze di panico è quella relativa all’integrazione delle funzioni sia fisiche che psichiche, integrazione riconducibile alla formazione dell’Io[4]. In un lavoro precedente (Ciardiello, 2005) ho ipotizzato che il vissuto del dap sia conseguente ad una regressione dell’Io a una modalità di funzionamento identica a quella attiva in un periodo della prima infanzia. L’ipotesi formulata era che l’aggressività autodiretta si manifesta colpendo la forza legante delle diverse funzioni dell’Io determinandone lo scollamento. Di questo antico processo resterebbe memoria organismica nell’incapacità dei sofferenti di dap di rilassarsi e abbandonarsi.
Nelle normali esperienze di rilassamento, insieme all’esperienza di allentamento delle tensioni, conserviamo anche quella della capacità legante delle funzioni integrative perciò avvertiamo il rilassamento senza aver paura di perderci. Nel dap invece il rilassamento si accompagna al vissuto di disintegrazione e della paura di non sapere/potere ripristinare l’integrazione precedente. È questo a rendere difficile, se non impossibile, a queste persone abbandonarsi e lasciarsi andare alla fiducia di sé e degli altri; per loro lasciarsi andare significa sfilacciarsi e perdersi perché temono di non saper ritrovare l’unità originaria e non sentono di possedere la capacità e la forza di ritornare ad essere integrati.
L’originaria sensazione/emozione di non-integrazione è presente fin dalla nascita (Winnicott, 1991) e i bambini, pur sentendola fin da allora, cominciano a capirlo quando le funzioni elementari si integrano e realizzano schemi sempre più complessi di comportamento, consoni alle attese delle persone che si prendono cura di loro. Questi schemi, sia fisici (corporei) che psichici, sono relazionali (legati al gruppo di appartenenza) e rendono le esperienze modalità plastiche di comportamento e di apprendimento. La conservazione di questa plasticità è la caratteristica che ci permette di rivivere momenti di rilassamento profondo e godere di momenti di non-integrazione in quanto consente di passare da una modalità di funzionamento all’altra senza perdere il senso di unità organismica.
Nel dap le relazioni primarie vengono vissute con la paura dell’abbandono (di essere abbandonati e quindi di abbandonarsi) e ciò alimenta una rigida organizzazione funzionale in cui gli aspetti processuali dell’Io perdono la loro caratteristica plasticità. La conseguenza è che ogni momento successivo, suscettibile di riprodurre un’esperienza di non-integrazione, è evitato perché vissuto come disintegrante. Perciò la dimensione dell’abbandonarsi (mollare, lasciarsi andare, rilassarsi), metaforicamente riconducibile anche alla dimensione dell’abbandono analitico, al setting, al terapeuta, nel dap va affrontata per ultima.
Per questo disturbo la personalità si organizza configurando le seguenti dimensioni psicologiche: fiducia, equilibrio, centratura e coordinamento, rabbia, abbandono.
Dato che qualsiasi carattere può dare luogo a questo disturbo, organizzando diversamente le dimensioni, per ogni carattere diventa importante organizzare diversamente l’impianto terapeutico senza trascurare il fatto che la modifica di ogni dimensione incide sulla personalità complessiva. In ogni caso quella dell’abbandono sarà sempre l’ultima esperienza a essere proposta e indagata.
Il tradimento dello sguardo
Un mito molto suggestivo, riportato da Igino, uno scrittore romano del II secolo d. C., ci parla di una dea molto singolare: Cura. Secondo il mito, mentre Cura stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Era intenta ad osservare che cosa aveva fatto, quando intervenne Giove. Cura lo pregò di dare lo spirito alla forma: Giove acconsentì volentieri e la forma divenne un uomo. Cura allora pretese di imporre il proprio nome alla forma umana, ma Giove non acconsentì e volle che fosse imposto il proprio. I due disputavano sul nome, quando intervenne anche la Terra, reclamando che fosse imposto il proprio nome, perché lei aveva dato alla forma una parte di se stessa. I contendenti elessero Saturno a giudice, che emise la seguente salomonica sentenza: “Tu, Giove, hai dato lo spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra hai dato il corpo, e riceverai il corpo. Ma fu Cura che per prima diede forma a questo essere, e per questo fin che vive essa lo possederà”. (Sandro Spinsanti, presentazione al volume di Catello Parmentola, 2003 Prendersi cura; il soggetto psicologico e il “senso dell’Altro” tra clinica e sentimento; Giuffré ed.)
I miti rappresentano per tutti noi un riferimento importante nella definizione di alcuni concetti, perché colgono aspetti singolari delle relazioni.
Nel mito di Cura lo sguardo si pone su un essere che rimanda alle dimensioni creative del dare forma, attività che pone la nascita della vita in relazione al desiderio di Cura. Quando c’è veramente il desiderio di curare, la forma prende vita e diventa persona. Quindi è il desiderio di chi cura (e si cura) che carica di presupposti e aspettative la matrice e le dà forma.
Da un punto di vista non meno suggestivo le neuroscienze, i teorici dell’attaccamento e i teorici intersoggettivi, ci suggeriscono un punto di vista analogo, individuando nelle prime relazioni sociali i modelli che stimolano il formarsi della mente e della personalità (Carli e Rodini, 2008). Queste relazioni danno forma originaria al nostro modo di pensare e incidono storicamente il divenire individuale, costruendo e stratificando nella biologia dell’organismo le integrazioni progressive dell’autonomia (Ciardiello, 2013; Mele, 2012). Le azioni che compiamo s’integrano sempre di più alimentando e alimentate dai processi mentali che da esse stesse derivano. Quindi è il nostro corpo che agendo fa esperienza e così produce il materiale primario perché la mente realizzi un analogo mondo nello spazio più riservato dell’individualità.
Gli eventi relazionali sono talmente significativi da indurci ad utilizzare il termine imprinting, che notoriamente caratterizza un comportamento etologico, anche in ambito umano. Ma rispetto al comportamento animale l’attaccamento umano è determinato da caratteristiche che, pur avendo una base biologica, sono specifiche della nostra specie, hanno una base evolutiva e sono indissolubilmente legate alla nascita della mente. In questo gioco di similitudine e differenze è nello sguardo in particolare che la specie umana afferma la propria priorità al punto che, in ogni gruppo sociale, in ogni relazione e in ogni individuo per ogni relazione, è possibile individuare una grammatica e un gergo specifico per l’interazione visiva (Serra et aa., 1993).
I teorici di cui sopra hanno scoperto e ratificato quello che tanti genitori già sapevano, che cioè con i bambini molto piccoli la comunicazione primaria avviene per mezzo dello sguardo e che l’intenzione comunicativa è già presente, nell’intensità dello sguardo infantile, fin dai primi momenti dalla nascita. I bambini molto piccoli si accorgono da subito che l’organo dello sguardo è quello più capace di interagire con gli altri umani che, in quel momento della loro vita, rappresentano il mondo. I successivi eventi di rottura e riparazione, per generalizzarsi alle altre manifestazioni comportamentali, quelle per intenderci relative alle altre modalità sensoriali degli scambi interattivi, necessitano di essere sperimentati e sviluppati innanzitutto in ambito visuo/oculare.
Questa dipendenza dall’interazione visiva testimonia l’esistenza di una notevole forza dello sguardo in ambito comunicativo, forza che s’impone producendo echi emozionali capaci di istituire rapporti gerarchici e relazioni finemente calibrati. Il bambino cerca nello sguardo della madre (care giver) informazioni utili (approvazione, sostegno, compiacimento, conferma, rifiuto, prescrizione ecc.) per configurare le dimensioni psicologiche necessarie per le corrispondenti funzioni mentali. È come se lo sguardo umano fosse capace di stimolare nell’altro, e in particolare lo sguardo della madre nei confronti del bambino, una capacità collante in grado di legare le funzioni nascenti che così s’integrano e si coordinano. In questo modo si forma l’Io che trova il senso di sé proprio nelle dimensioni rappresentate.
Perché questo Io diventi un’istanza solida e capace di organizzare l’esito delle esperienze in un tutto organico e flessibile, è necessario che l’organismo si fornisca di una guida, cioè di un filo su cui impilare le diverse funzioni come le perle di una collana e inoltre, come rappresentato nel mito di Cura, l’Io necessita di attenzione continua e cura costante; ha bisogno d’essere sempre alimentato e confermato in quanto, nato dall’organizzazione metaforica di esperienze corporee, cambia in continuazione corrispondentemente ai cambiamenti delle stesse metafore legate alle continue trasformazioni del corpo. L’Io quindi, derivando dal corpo, ha la forma di un evento/processo (Ruggieri, 2011) che in quanto tale interpreta il mondo agendo; questo agito comprende l’assimilazione delle informazioni (anche e soprattutto relazionali), che determinano le modifiche strutturali del cervello (Legrenzi, Umiltà, 2009). La guida di cui l’Io necessita è nello sguardo di Cura.
Nel dap l’Io si mostra inadeguato nei confronti delle proprie esperienze. Non è in grado di sostenerle né di cogliere i nessi e le caratteristiche utili ad un arricchimento costruttivo della forma (mentale/corporea). Nei resoconti clinici delle persone che soffrono di dap è consueto leggere che fin dai primi esordi del disturbo la prima cosa avvertita è la perdita degli occhi. Questo vissuto, corrispondente alla perdita della capacità di controllo oculare e visivo, comporta la perdita, nell’Io, della capacità di legare le diverse funzioni che portano al controllo e alla coordinazione delle pupille. Con la presenza di Cura, alla fine di questo processo d’integrazione sappiamo di vedere e guardare, sappiamo come lo facciamo, sappiamo di poterlo fare nei modi necessari quando lo vogliamo, nei momenti e nelle condizioni opportune. Nel dap non c’è più Cura…! E l’effetto panico deriva allora dalla perdita di questa capacità; si perde l’Io/occhi e sopravviene una disorganizzazione che si accompagna al vissuto di disintegrazione.
Sintetizziamo dicendo che le persone che non soffrono di panico vivono i momenti di distensione con tranquillità e piacere, conservano la capacità di coordinamento e controllo, preservano la fiducia nelle proprie possibilità e, quando avvertono un allentamento delle tensioni corporee e psichiche, vivono corrispondenti sensazioni che sperimentano con un sano sentimento di non-integrazione; al contrario, chi soffre di panico interpreta quest’esperienza come disintegrante e la vive con terrore.
Il recupero dello sguardo
Nell’ideare un nuovo strumento terapeutico, fin dalle sue prime intuizioni, Reich pensava di dover sciogliere i vissuti congelati nell’organismo. Riteneva che l’uomo fosse vissuto da un’energia che lo forma e che, fin dal concepimento, lo trasforma per mezzo delle esperienze; queste lo colorano storicizzandosi in contratture organismiche. Esiste un grado ottimale di contrazione, al di sopra o al di sotto della quale il movimento diventa disfunzionale. L’idea di Identità Funzionale indica queste disfunzioni come proiezione fisica di un’analoga difficoltà psicologica.
Come spesso accade per tutte le malattie, anche per il panico succede di guardare al dito piuttosto che all’oggetto. Il comportamento panico è l’aspetto appariscente di un disturbo psicologico e possiamo decidere se intervenire sui sintomi o sul disturbo che ne è alla base. Inoltre, essendo il disturbo di tipo relazionale, è su questo che bisogna puntare senza trascurare di considerare che in ambito psicoterapeutico l’efficacia di un apparato tecnico dipende non solo dalla precisione dello strumento, ma anche dal modo in cui l’operatore lo utilizza. Operativamente, mettendo in atto un piano terapeutico, dobbiamo rapportarci all’altro considerandolo nella sua interezza anche quando è portatore di un disturbo, e lo possiamo fare solo partecipando con tutto noi stessi all’esercizio che stiamo proponendo.
Come accennato in qualche riga precedente, nell’utilizzo dell’espressione perdita degli occhi in genere ci si riferisce al vissuto di un’epoca di sviluppo, quella delle prime fasi neonatali, in cui non era ancora maturata la capacità di coordinamento e integrazione oculare. In questa espressione però, mentre è implicita l’idea di una regressione, non sempre è chiaro il motivo che l’ha generata mentre sono proprio i motivi supposti della regressione che, una volta individuati e modificati, possono ristabilizzare la funzione stessa. Pertanto supporre che il dap sia il prodotto comportamentale di un evento regressivo, senza accompagnare tale affermazione con una descrizione causale, ci lascia piuttosto impotenti mentre affermando per esempio che il dap deriva da un’emozione di rabbia che, non potendo essere espressa, viene rivolta contro sé stessi allentando il collante integrante, ci permette di guardare ai portatori di questo disturbo come agenti attivi, coinvolti in una relazione nella quale i sintomi sono un tentativo di guarigione, se non altro perché richiedenti cura, e con i quali possiamo cercare di imbastire una relazione che ripristina le naturali capacità leganti.
Se consideriamo l’attivazione di questa rabbia come causa della perdita della capacità oculare, possiamo ipotizzarne il recupero proprio agendo su di essa per mezzo della relazione terapeutica e su questi presupposti è possibile ipotizzare un piano di intervento.
In presenza di rabbia inespressa, e prima di proporre esercizi di scarica o di recupero energetico, è necessario riparare le condizioni relazionali che hanno prodotto la rottura e dato che, nella presente ipotesi, la rottura è stata determinata dalle figure che non hanno più guardato e visto queste persone, quindi non c’è più stata Cura, è necessario che il nostro sguardo sia individuante e cerchi una risposta oculare ripristinando la funzione primaria di Cura. Inoltre, a proposito delle diverse dimensioni psicologiche che possono essere curate scambiandone l’ordine gerarchico a seconda dell’emergenza e dell’urgenza, per ripristinare la dimensione abbandonica è necessario che quelle della fiducia, del coordinamento, dell’equilibrio e della rabbia siano state già realizzate.
Allora vediamo nello specifico come un impianto psicoterapeutico può essere svolto in base ai presupposti evidenziati.
Il periodo di fissazione del dap lo possiamo ipotizzare in fase muscolare, quando è possibile immaginare che possa realizzarsi il tradimento dello sguardo, e i livelli muscolari coinvolti saranno il 1° (comprendente occhi e orecchie), che rimanda alla formazione dell’Io e delle sue funzioni corporee, spaziali e d’equilibrio, e il 3° (collo) che risponde alle necessità narcisistiche.
In VegetoTerapia (VgT) la tecnica principe per la ricerca dello sguardo prevede l’utilizzo di una lampadina e la funzione visiva è indagata facendo fissare con insistenza un punto luminoso. Per un eventuale approfondimento si rimanda al testo di Navarro (Navarro, 1998).
Nel dap, considerando valida l’ipotesi della genesi esposta, la perdita degli occhi si accompagna ad una mancanza di fiducia negli altri, in sé stessi e in una mancanza di equilibrio; queste condizioni rendono necessario indagare la funzione della capacità di fissazione oculare (corrispondente alla capacità di concentrazione su di un punto di vista che può anche avere valenza esistenziale e fungere da punto di riferimento) proponendo esercizi alternativi a quello dell’uso della lampadina (che può essere vissuta come intrusiva e persecutoria) dato che l’importante è che sia possibile controllare lo sguardo. In tal senso il proprio sguardo spesso si rivela lo strumento migliore per la cattura di quello dell’altro. È questa un’attività che può essere svolta in qualsiasi posizione, in piedi o seduti, a seconda delle difficoltà che si incontrano nella relazione e in attesa di proporla secondo i canoni della VgT, in quanto le persone sofferenti di dap in genere non tollerano di distendersi e rilassarsi e hanno difficoltà ad accettare l’idea di farsi aiutare. Essendo abituati a farcela da soli, in posizione eretta possono vivere lo psicoterapeuta come una persona loro pari, da cui possono non dipendere.
La tecnica
Non è semplice nè facile! Non servono raccomandazioni ed esortazioni, non basta segurie le istruzioni per andare in bicicletta; bisogna salirci e pedalare. Bisogna imparare con l'esperienza a sentire e tenere l'equilibrio, a sentire la fatica e ad avvertire dentro di sè le proprie possibilità. Si impara ad andare in bicicletta facendosi male da soli o seguiti e accompagnati da qualcuno che ti tiene la sella.
Ambedue in piedi, terapeuta e paziente, a pochi centimetri l’uno dall’altro si può essere attenti a non distrarsi ancorando gli sguardi; il terapeuta protende le mani piegando i gomiti a 90° così che le braccia siano perpendicolari agli avambracci. Il paziente appoggia le proprie mani su quelle del terapeuta che cercherà di avvertire quanto la persona si appoggia e in quale modo lo fa.
Di solito resta leggera; le spalle rimangono tese e tirate in sù, il respiro alto, le ginocchia rigide, il ventre contratto, il collo tirato indietro con la bocca che cerca verso l’alto una via d’uscita. Le persone che soffrono di dap, non avendo mai vissuto l’esperienza del lasciarsi andare ad appoggiarsi su qualcun altro, di solito non lo sanno fare nemmeno col terapeuta. Non sanno quali configurazioni fisiche attivare per arrivare ad allentare le tensioni che li tengono sospesi.
Si può provare allora a correggere questa postura tenendo presente che la dimensione da perseguire è la fiducia nei nostri confronti per poi trovare il modo di trasferire questa fiducia nei pazienti stessi. In termini analitici si tratta di attivare un’introiezione.
Per realizzare tale obiettivo per noi terapeuti è necessario imparare ad osservare nel dettaglio il corpo che stiamo sostenendo e guardarlo per quello che è; questi corpi, metafora dei vissuti che le persone stanno sperimentando, necessitano di istruzioni elementari e dettagliate per arrivare a capire, non cosa fare, perché l’hanno sempre saputo e l’hanno sempre fatto, bensì come farlo. Il come relazionarsi in maniera diversa da quella che sanno già fare. Si tratta di entrare in concreto in quelle che Reich definiva le vere difese, quelle corporee, che si manifestano non nei contenuti delle cose che le persone riportano, ma nei modi in cui esprimono quei contenuti e costruiscono la relazione.
A occhi aperti cerchiamo nello sguardo del paziente la presenza della persona; cerchiamo la conferma della consapevolezza di star guardando i nostri occhi e che dentro i nostri occhi vedono noi. Quando sapremo vedere questa loro presenza allora anche noi staremo vedendo la persona che è dentro quegli occhi e la cercheremo con assiduità e insistenza.
I nostri occhi fungono da punto fisso: punto di riferimento cui agganciarsi per tenersi in equilibrio, fulcro su cui appoggiarsi per costruire la fiducia e monito per restare in contatto con noi, presenti all’esperienza, e con loro stessi. Analogamente a questo primo esercizio, in tutti gli acting di VgT, quando sono proposti con atteggiamento terapeutico, è possibile stimolare la presenza mentale. Nel dap questa esperienza può risultare molto utile e chiarificatrice per il fatto che ripropone la replica di quanto è vissuto durante gli episodi di crisi che sono così coinvolgenti da scalzare l’Io e dare l’impressione di imporsi in maniera completamente autonoma[5]. È questo a produrre un’esperienza di inadeguatezza che diventa drammatica quando è sostenuta dalla confusa interpretazione della non-integrazione. È anche la mancanza d’equilibrio, nel disturbo panico, a produrre un’interpretazione disintegrante del normale vissuto di non-integrazione. Perciò il secondo step tenderà al recupero di quest’ulteriore capacità.
Il vissuto fenomenologico dell’equilibrio può essere suggerito dall’esperienza dell’asse d’equilibrio. Realizzata la fiducia con l’esercizio dell’appoggio, si può chiedere alla persona di camminare in linea retta per la stanza ponendo alternativamente il tallone di ognuno dei piedi a contatto con la punta dell’altro. Se possibile possiamo disegnare una riga per terra e chiedere alla persona di seguirla. Ancora più efficace sarebbe poter disporre di una sottile riga in rilievo sul pavimento, di spessore sufficiente ad essere appena avvertito appoggiandovi i piedi, così da poterla seguire senza dover guardare ‘dove si mettono’… si può in tal modo realizzare un passaggio, dalla dimensione dell’appoggio e della fiducia, a quella dell’equilibrio senza interruzioni, sostenendo la persona con le proprie mani disposte nel modo su esposto e procedendo a ritroso. Dopo le prime volte la persona lo farà da sola sostenendosi fissando un punto immaginario sulla parete.
Forse vale la pena insistere su un punto: il lavoro per dimensioni psicologiche che si sta proponendo, che hanno valenza fenomenica e quindi soggettiva, andrebbe sempre effettuata con metodo sia psichico sia corporeo in virtù di quell’Identità Funzionale scoperta da Reich e di cui in VgT siamo convinti sostenitori. Nello specifico, quando e se l’intervento di VgT non è possibile, si possono utilizzare interventi corporei alternativi ma che perseguono lo stesso fine. In questo caso la dimensione relativa all’equilibrio, che in VgT può essere indagata utilizzando la rotazione degli occhi, in alternativa può essere indagata proponendo, come appena esposto, una camminata molto lenta considerando che più questa lentezza è accentuata e più l’azione deambulante necessita di concentrazione ed equilibrio.
A questo punto si può procedere verso un ulteriore obiettivo, che è quello dell’integrazione: sempre camminando sulla riga si può proporre di associare ad ogni passo il movimento alternato delle braccia; poi aggiungere in associazione il respiro, con le fasi di espirazione ed inspirazione associate al movimento delle braccia, ed infine associare ulteriormente l’emissione di un suono ad ogni passo. In VgT possiamo proporre la respirazione simile all’ansimare del cane associata ad eventuali movimenti degli arti, ecc.
Si sono toccate le dimensioni dell’appoggio, della fiducia, dell’equilibrio e dell’integrazione. A questo punto la stabilizzazione della fiducia la si può realizzare con l’esercizio del pendolo in cui la persona, in posizione eretta, dopo aver sperimentato la propria tenuta dell’equilibrio, oscillando avanti e dietro senza superare i limiti della stabilità, si lascia cadere sulle mani del terapeuta, che sono tese a sostenerlo, prima davanti e poi di dietro, ad occhi aperti e poi chiusi.
I passi successivi saranno sempre condotti integrando i precedenti per i quali, volta per volta, saranno indagate le dimensioni dei vissuti, delle sensazioni e dei pensieri come suggerito dalla VgT.
La rabbia in Vgt è indagata con l’acting del mostrare i denti.
È un acting eccessivamente evocativo per il dap; un valido sostituto potrebbe essere un esercizio stressogeno in cui ci sia anche l’espressione di una vocale (in genere una –A-). Ci si può appoggiare con la schiena ad una parete e, con le ginocchia leggermente flesse, strizzare uno straccio o un asciugamanino tenendo le braccia tese davanti a sè.
Sarà cura del terapeuta fare attenzione a che le dimensioni già realizzate siano conservate in quanto il corpo/psiche (la mente) tende facilmente a tornare su modi che, abitudinari, sono più economici.
Un modo per conservare e stabilizzare l’equilibrio, la fiducia e l’integrazione è quello di fare seguire questo esercizio da quello in cui si effettuano le stesse azioni stando in piedi, distanti dalla parete, in posizione grounding.
Lo step successivo sarà ancora quello di replicare questo esercizio mostrando i denti e possibilmente emettendo tutti i suoni che si sente il bisogno di esprimere, specie quelli che la persona ritiene rabbiosi.
Dopo l’espressione della rabbia dovrebbe essere più facile, anche per i sofferenti di dap, sperimentare l’abbandono. Finalmente sono in presenza di qualcuno di cui si possono fidare e perciò molto più facilmente potranno sperimentare il pendolo e, alla fine, qualche esercizio di respirazione e rilassamento.
Questi suggerimenti pratici sono solo esempi di esercizi che possono essere proposti. Ognuno può affidarsi alla propria creatività che è ciò che distingue un terapeuta dall’altro: la capacità di offrire ai propri pazienti strumenti soggettivamente calibrati per la risoluzione e l’indagine di vissuti specifici.
[1] Lega italiana contro i disturbi d’Ansia, da Agorafobia e da Attacchi di Panico; sito internet: www.lidap.it
[2] “… l’esperienza percettiva costituisce un elemento portante per lo sviluppo della dimensione psicologica poiché la rappresentazione (prima ancora di ogni interpretazione e riconoscimento) è alla base della costruzione del significato”. (Ruggieri, 2011, pag. 41).
[3] “… segnaliamo che l’unità funzionale non è soltanto il neurone, ma anche i circuiti neuromuscolari, neuro ghiandolari (neuro viscerali e neuroendocrini). Queste sono dunque le strutture funzionali portanti da cui nasce la dimensione psicologica.” (Ruggieri, id., pag. 23)
[4] “L’Io gestisce sia funzioni fisiologiche, secondo moduli automatizzati, sia comportamenti di nuova formazione secondo valutazioni cognitive ed emozionali che caratterizzano la sfera soggettiva…. L’io dunque sarebbe la connessione funzionale delle connessioni recettoriali e programmatiche.” (Ruggieri, ib., pag. 41).
[5] Questa esperienza in realtà propone un vissuto che è esattamente il contrario dell’esperienza panica; ma per l’inconscio ciò che è esattamente il contrario per alcuni versi è la replica di una certa esperienza, così come accade nei vissuti onirici.
Bibliografia
- Carli, L. e Rodini, C. a cura di (2008), Le forme di intersoggettività. Milano: Raffaello Cortina.
- Ciardiello, G. (2013). “Psicoterapia, corpo, mente e dimensioni psicologiche”. Rivista on-line: PsicoterapiaAnaliticaReichiana, n.1.
- Ciardiello, G. (2005). “Genesi, Diagnosi differenziale e Terapia del DAP”. http://www.lidap.it/della-ricerca/56-genesi-diagnosi-differenziale.html
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* Psicologo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R., Consulente LIDAP (Lega Italiana contro i Disturbi d'ansia, da Agorafobia e da attacchi di Panico)