Numero 2/2024
VIOLENZA STRUTTURALE
Domande sull’aver cura
STRUCTURAL VIOLENCE
Questions about caring
Antonella Messina[*]
Abstract
L’articolo pone delle domande in merito al tema della violenza strutturale individuata da Farmer.
Terapeuta e paziente sono immersi in processi sociali che non aggrediscono la singola persona direttamente. Tuttavia questi processi generano ed autoriproducono la violazione del rispetto dei principi di base dell’umano. Che tipo di azioni può agire lo psicoterapeuta nel setting?
Parole chiave
Violenza strutturale - società contemporanea – psicoterapia.
Abstract
The article asks questions regarding the topic of structural violence identified by Farmer.
Therapist and patient are immersed in social processes that do not attack the individual person directly. However, these processes generate and self-reproduce the violation of respect for basic human principles. What type of actions can the psychotherapist take in the setting?
Key words
Structural violence - contemporary society – psychotherapy.
Nel 2003 Paul Farmer, antropologo e medico statunitense, scrive un libro dal titolo Patologie del potere: salute, diritti umani e la nuova guerra sui poveri. Nel libro l’antropologo e medico, introduce il concetto di violenza strutturale. Lo studioso intendeva con questa definizione, quel particolare tipo di violenza che viene esercitata in modo indiretto; essa non ha bisogno di un attore per essere eseguita, è prodotta dall’organizzazione sociale stessa ed è agita da singoli e da gruppi nel quotidiano; essa non è necessariamente indirizzata alla diretta offesa di qualcuno in maniera specifica, è spesso insita nei costrutti sociali, nelle loro leggi o nelle prassi.
Farmer aveva a lungo lavorato ad Haiti. Lì aveva studiato i processi che incastonavano gli esseri umani in un circuito distruttivo sociale che giustifica per legge e per consuetudine pratiche di offesa dell’umano e della sua dignità. In tale processo non era possibile individuare un singolo o un gruppo cui fare risalire la responsabilità della morte o delle patologie di una persona, ma piuttosto un’organizzazione sociale che prevede ad esempio che i bambini possano essere lavoratori. All’interno di questo circuito la stessa vittima non può non attuare altra possibilità che quella prevista dalle regole sociali. Il bambino solo trova naturale dover lavorare senza orario e paga, ma qualora volesse cambiare vita, troverebbe persone, anche parenti, istituzioni e consigli che giudicherebbero fuori luogo ed inaudita la sua richiesta.
Farmer riprendeva questi concetti facendo riferimento al sociologo norvegese Johan Galtung che alla fine degli anni Sessanta, teorizzò la presenza di tre tipi di violenza: la violenza diretta o fisica, la violenza culturale o simbolica, e la violenza strutturale (Galtung, 1969). Quest’ultima è determinata dalle strutture sociali e dall’azione delle istituzioni politiche ed economiche che agiscono sulla vita degli individui. A sua volta, Farmer nel 2006 rielaborava i concetti di Galtung e Gilligan attraverso una nuova definizione, specificando che la violenza strutturale indica una violenza esercitata in modo sistematico – ovvero, in modo indiretto – da chiunque appartenga a un certo ordine sociale. (Farmer, 2006, p.22).
Scriviamo di questo concetto intendendo traslarlo nella lettura della società occidentale contemporanea per individuare eventuali processi di violenza strutturale. Poniamo queste domande tenendo presente il mondo delle scienze psicologiche e psichiatriche e dei lavori di cura in genere. L’intento è quello di lasciare aperte le domande interrogando le scienze in oggetto, su quale possa essere il proprio ruolo e la propria posizione rispetto a questi processi.
La prima delle violenze strutturali che si pone all’attenzione è l’accelerazione o il furto del tempo interno in cui l’essere umano contemporaneo si ritrova a vivere ed annaspare[1]. Tale processo invasivo, traumatico, estraniante ed autoriprodotto da singoli ed organizzazioni, viene messo in atto, ripetuto ed alimentato, nelle relazioni, nel mondo lavorativo, nelle organizzazioni scolastiche e pedagogiche, nelle organizzazioni sociali e della cultura. Nessuna legge o nessun decreto sono stati emanati per dichiarare la necessità di andare di fretta. Pur tuttavia, andare di fretta è oramai un modo condiviso, necessario e fondamentale per rimanere al passo con la ricerca del successo, della notorietà e dell’apparire, per mantenere un posto di lavoro o per sostenere una buona immagine. Difficile per molti e moltissimi pensare di poter lavorare, accedere ai servizi primari e sanitari senza l’utilizzo dei velocissimi devices che connettono il singolo al sistema internet e lo rendono veloce, immediato nella risposta. Tale violenza è così strutturale, insita ed innestata nel campo sociale, da essere agita indifferentemente da varie età, fasce sociali e professioni.
A seguire questo pensiero, riflettiamo sul fatto che si incontrano nel setting paziente e psicoterapeuta ed ambedue sono soggetti attivi dentro questo meccanismo invisibile di violenza strutturale. Anche chi si occupa di cura oggi ha innestato al proprio interno le leggi dell’accelerazione, dell’ubiquità digitale, dell’apparire, dell’avere tante identità quante sono le piattaforme digitali cui è iscritto. Come lavorare questa appartenenza allo stesso mondo di terapeuta e paziente e quali punti ciechi o in quali omissioni condivise possono incorrere i due soggetti e dunque la psicoterapia?
È possibile che gli accadimenti e le strutture di questo tempo storico possano richiedere un allenamento ed una consapevolezza del terapeuta verso le invasioni infiltranti che il campo sociale sta muovendo negli individui tutti, terapeuti compresi.
Viviamo una struttura sociale ed un clima emotivo che ha preso in ostaggio le questioni vitali caricandole di valori ideologici. Potremmo leggere anche questo come una sottile violenza strutturale. La difesa della vita, l’accoglienza, la cura dei corpi e la loro autodeterminazione, sono diventati argomenti legati ad una parte politica piuttosto che un’altra. Per un terapeuta la difesa della vita e della pace è diventato un argomento passibile di giudizio politico e partitico. Viene richiesto alla psicologia di esprimersi rimanendo dentro il campo neutro delle verità misurabili delle neuroscienze e delle spiegazioni del perché accadono le cose. Ci chiediamo se il terzo campo sociale stia proponendo di inserire la psicologia dentro l’organizzazione di risposte fondate sullo spiegare cosa accade e sul perché accade, senza però mettere in discussione il sistema che le genera. Tg e show ostentano una psicologia che spiega i processi neuronali di chi uccide o le organizzazioni lucide e conseguenziali di chi commette reato. Come sia possibile che si uccida o come sia possibile che uno stato o un politico utilizzi nuovamente la parola deportazione per ottenere e trovare consenso popolare non sembra essere oggetto di attenzione scientifica psicologica. La psicologia si fa prossima alla scienza delle verità misurabili e dimostrabili accantonando la domanda del come sia possibile che l’umano dimentichi la propria umanità. Come muoversi dentro queste trame dentro ai setting?
Fare spazio
Teresa Forcades, medico e monaca benedettina, in una recente intervista[2] ricorda che nella seconda metà del ‘500 il mistico ebraico Luria teorizzò che la creazione del mondo fosse avvenuta tramite una contrazione di Dio, un atto inspiratorio di contrazione detto Tzimtzum. Questo sarebbe l’atto divino che avrebbe fatto spazio alla nuova creazione. Dio ritirandosi, avrebbe così consentito il vuoto da cui nasce l’altro da sé. Una sorta di autolimitazione che lascia spazio al mondo di cominciare ad esistere come altro. Si potrebbe, nei percorsi di analisi e nelle formazioni, inserire riflessioni su come la psicologia e la psicoterapia necessitino di un atto inspiratorio per lasciare spazio anche a riflessioni sul sè ed in che modo, le scienze della cura siano anch’esse un fenomeno culturalmente determinato con processi di identificazione sintonica e simbiotica con il proprio tempo storico. Questo atto lascerebbe spazio alla creazione di altri modi di pensare la cura e l’aver cura? Sono ancora recenti i processi conflittuali e le fratture prodotte nella cura, date dagli schieramenti degli psicologi e medici durante la pandemia da Covid 19. Ancora in atto è il considerare l’occuparsi della guerra e della pace, come questione politica da cui, come terapeuti, non lasciarsi contaminare. Il sostegno alla vita, alle relazioni, al sentire il proprio umano possono ancora essere questione psicologica o ci troviamo in un momento storico in cui la psicologia è scienza del misurabile e bisognerà riprendere a demandare alla filosofia ed alla teologia gli studi in merito all’umano? E se così fosse, in che rapporti staranno tra loro anima e psiche?
[*]Tali definizioni sono approfondite in altri articoli di questa rivista accanto a concetti come furto del tempo e sofferenza urbana.
[*] Radio 3, Uomini e profeti, puntata del 18 Febbraio 2024
Bibliografia
Farmer, P., Sen, M., (2004). Patologie del potere: Salute, diritti umani e la nuova guerra sui poveri pubblicato in inglese con il titolo Pathologies of Power: Health, Human Rights, and the New War on the Poor, University of California, Berkeley: 2004
P. Farmer, Un’antropologia della violenza strutturale
Forcades T. (2016) Siamo tutti diversi! Per una teologia queer. Roma: Castelvecchi
Galtung J., Florio S.(2014) Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare.
University Press:Pisa
Galtung, Violence, peace and peace research, “Journal of Peace Research”, 6, 3, 1969, pp. 167-191
Sucato, L., Messina, A. (2019) Processi di sofferenza urbana. Catania: Malcord D ed.
https://www.raiplaysound.it/audio/2024/02/ Uomini e Profeti del 18/02/2024
[1]Tali definizioni sono approfondite in altri articoli di questa rivista accanto a concetti come furto del tempo e sofferenza urbana.
[2] Radio 3, Uomini e profeti, puntata del 18 Febbraio 2024
[*]Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Cuturi, 8. Catania.