Numero 2/2024

CORPO, ANGOSCIA DI MORTE, PSICOTERAPIA

BODY, DEATH DRIVE, PSYCHOTHERAPY

 

Marcello Mannella[*]

 

Abstract

     È in Al di là del principio di piacere che Freud ha affermato l’esistenza della pulsione di morte, ancora più originaria della pulsione di eros o di vita. Freud non ha però mai preso in considerazione l’angoscia della morte come fattore clinico determinante. Qual è la posizione della S.I.A.R.? Esiste una pulsione di morte? È comunque possibile l’esperienza precoce dell’angoscia di morte? Se si, come dobbiamo considerarla? Come l’equivalente analogico di più decisive e originarie esperienze? In ogni caso, riveste una funzione patogena?

 

Parole chiave

     Pulsione di morte - angoscia di morte - allarme intrauterino – masochismo - paura di vivere.

 

Abstract

     In Beyond the Pleasure Principle Freud claimed the existence of death drive, even more primordial than the eros or the life drive. However, Freud never considered death anxiety as a decisive clinical factor.

What is SIAR’s position? A death drive does exist? Is the premature experience of death anxiety possible? If yes, how should we consider it? As the analogical equivalent of more decisive and intial experiences? In any case, does it have a pathogen function?

 

Key words

     Death drive – death anxiety – intrauterine alarm - masochism – afraid to live.

 

La psicoanalisi e la pulsione di morte

La formulazione della pulsione di morte è un frutto tardo della riflessione di Freud. La sua accettazione nel corpus originario è stata problematica, anzi non riuscirà “ad essere mai pienamente integrata nel quadro teorico” (Vegetti Finzi, 1986, pag.117).[1]

È in Al di là del principio di piacere (1920) che Freud aveva affermato l’esistenza della pulsione di morte, ancora più originaria della pulsione di eros o di vita. La pulsione di morte poteva esprimersi in forme dirompenti e (auto) distruttive, oppure come un tendere quieto e silenzioso ad uno stato pre-biologico dell’esistenza (principio del nirvana).

Al modello monistico della psiche, fin lì faticosamente costruito intorno alla realtà dell’unica fonte energetica della libido e sull’opposizione fra le pulsioni di eros e le esigenze dell’Io, si sostituiva un modello dicotomico attraverso le opposte tendenze delle pulsioni sessuale e di morte, di Eros e Thanatos.

Nonostante quest’opera di revisione profonda, a parere dello psicoterapeuta esistenziale Yalom (2019), Freud non ha però mai preso in considerazione l’angoscia della morte come fattore clinico determinante. Il padre della psicoanalisi avrebbe eluso il problema fin dalle origini della sua riflessione.

“Quando si considera il materiale dei casi dei pazienti di Studi sull’isteria (1895) dal quale sono generate le conclusioni di Freud sull’angoscia e sul trauma, si è colpiti dalla sbalorditiva discrepanza tra la storia dei casi e le conclusioni e formulazioni di Freud: la morte pervade talmente le storie cliniche di questI pazienti che solo con uno sforzo supremo di disattenzione Freud aveva potuto ometterla dalla discussione sui traumi acceleranti. […] Le tre pazienti principali, vale a dire Anno O., Emmy von N. ed Elisabeth von R. (le prime relazioni di casi dinamici della letteratura psichiatrica), sono notevoli in quanto le loro descrizioni cliniche sono piene di lamentosi riferimenti alla morte” (Ibidem, 81).

“Di sicuro i traumi collegati alla morte di queste pazienti evocavano in loro profondi sentimenti di terrore e impotenza. Ma nelle conclusioni di ciascun caso Freud trascura interamente il tema della morte o si limita a richiamare l’attenzione sullo stress generalizzato causato dalla perdita di ciascuna paziente. Le sue conclusioni si focalizzano sulle componenti erotiche del trauma […]” (ibidem, p.83).

Yalom riconosce a Freud il merito di aver individuato la presenza di numerosi conflitti che agitavano l’animo delle sue pazienti, ma ancora più importante è, a suo parere, quello che Freud ha omesso. “La morte di un genitore, di un coniuge o di una persona vicina è qualcosa di più di uno stress generalizzato; è più della perdita di un oggetto importante. […] Come Elisabeth alla morte della sorella, così Anna a quella del padre ed Emmy a quella del marito: ciascuna doveva aver colto, a un livello profondo e solo per un istante, il baluginare della propria morte”.

Yalom cita un passaggio di Inibizione, sintomo e angoscia in cui Freud giustifica la convinzione che l’esperienza della morte non possa essere considerata fonte primaria di angoscia e dunque causa di affezioni nevrotiche.

“Dopo tutto ciò che sappiamo della struttura delle semplici nevrosi della vita quotidiana, è oltremodo improbabile che una nevrosi possa prodursi solo a causa del fatto obiettivo che il soggetto si trovi in pericolo, senza alcun apporto degli strati inconsci più profondi dell’apparato psichico. Nell’inconscio, peraltro, non è presente nulla che possa dare un contenuto al nostro concetto di annientamento della vita. L’evirazione è in certo modo rappresentabile grazie all’esperienza quotidiana della separazione dal contenuto intestinale, nonché alla perdita del seno materno, così come è stata vissuta durante il divezzamento; nulla di simile alla morte è stato invece mai provato […]. Perciò mi mantengo fedele all’ipotesi che l’angoscia di morte debba considerarsi come un che di analogo all’angoscia di evirazione […] (ibidem, pp. 84/85)[2].

Per Yalom le affermazioni di Freud che non si possa avere una rappresentazione inconscia della morte e che, dunque, debba essere considerata un analogo dell’angoscia di castrazione risultano sbalorditive.

“Abbiamo avuto un’esperienza della castrazione? La risposta è negativa, tuttavia secondo Freud sperimentiamo altre perdite che sono equivalenti dal punto di vista dell’esperienza: la separazione dalle feci o l’esperienza dello svezzamento. Di sicuro il collegamento feci-svezzamento-castrazione non è molto più logicamente convincente del concetto di una consapevolezza innata e intuitiva della morte” (Ibidem).

La posizione di Freud è stata storicamente determinante nonostante il dissenso di molti psicoanalisti perché ha dato vita ad “un culto della negazione della morte in generazioni di terapeuti” (Yalom, 2019, p. 85). L’angoscia della morte e la sua funzione patogena sono state scotomizzate dalla psicoanalisi.

La considerazione psicoanalitica dell’angoscia di morte come espressione analogica di un’esperienza traumatica originaria ha ricevuto un’attestazione pesante dagli studi di Bowlby che hanno individuato nell’angoscia di separazione dalla madre l’evento psichico più originario e terrifico. Evidente fra i sei e i trenta mesi, l’angoscia di separazione dalla madre sarebbe ancora più patogena dell’angoscia di castrazione.

Yalom muove ovviamente le sue critiche anche a Bowlby: “la ricerca empirica dimostra che il bambino ha paura quando è separato, ma non che l’ansia di separazione sia l’angoscia primaria dalla quale deriva l’angoscia della morte. A un livello precedente al pensiero e al linguaggio il bambino può sperimentare l’angoscia indefinita del non essere. E quell’angoscia, tanto nel bambino che nell’adulto, cerca di diventare paura: e, nell’unica ‘lingua’ disponibile al bambino più grande, legata e trasformata in ansia da separazione” (Ibidem, pp. 129-130).

“Anche se dovessimo accettare l’affermazione che l’ansia da separazione sia cronologicamente la prima angoscia, non ne conseguirebbe che l’angoscia della morte sia realmente la paura della perdita dell’oggetto. L’angoscia più fondamentale (di base) scaturisce dalla minaccia della perdita del sé[3]. Se uno teme la perdita dell’oggetto, lo fa perché la perdita di quell’oggetto è una minaccia (o simbolizza una minaccia) alla propria sopravvivenza” (Ibidem, p.130).

Yalom sostiene che l’angoscia della morte è originaria e non possa essere ricondotta ad espressione di altre esperienze traumatiche. Essa ha un ruolo di primo piano nella vita interiore degli esseri umani – è una presenza oscura, destabilizzante, al limite della coscienza - e rappresenta il principale compito evolutivo del bambino, in uno sforzo teso al superamento della paura di annientamento e al riconoscimento della propria e altrui mortalità. Per fronteggiarla spesso il bambino erige meccanismi difensivi basati sulla negazione che finiscono con lo strutturare il carattere e che, se disadattivi, possono esitare in sindromi cliniche. Ritiene pertanto che “un approccio solido ed efficace alla psicoterapia può essere costruito [soltanto] sulle fondamenta della consapevolezza della morte” (Ibidem, p.39).

 

La S.I.A.R. e la pulsione di morte

Ora rivolgiamo l’attenzione al nostro modello teorico. Qual è la posizione della S.I.A.R.? Esiste una pulsione di morte? È comunque possibile l’esperienza precoce dell’angoscia di morte? Se si, come dobbiamo considerarla? Come l’equivalente analogico di più decisive e originarie esperienze? In ogni caso, riveste una funzione patogena?

La nostra riflessione non può che iniziare dalla nostra storia, dalla posizione di Reich, che sul tema della realtà della pulsione di morte entrò in contrasto con il maestro fino al punto da essere espulso dalla Società Psicoanalitica Internazionale.

A parere di Reich la spinta (auto) distruttiva non era espressione della pulsione di morte, ma il frutto della repressione della libido genitale. La distruttività era una pulsione secondaria e non primaria. La repressione degli impulsi sessuali genitali comportava il loro pervertimento in impulsi di morte. Tutte le affezioni nevrotiche, così come le perversioni, erano conseguenza del disturbo della economia sessuale. Tutti i pazienti soffrivano di impotenza orgastica (Reich, 1985).

Conseguenza del disturbo orgastico era l’assunzione di una particolare attitudine verso la vita. Le persone nevrotiche mostravano una più o meno pronunciata paura di vivere. Le difficoltà ad aprirsi e relazionarsi con fiducia, ad esprimersi liberamente, a godere della spontaneità del vivere, a progettare la propria esistenza, erano, a parere di Reich, sintomi della paura dell’orgasmo. Anche la paura della morte, l’altra faccia della paura di vivere, non era nient’altro che espressione della paura dell’orgasmo (Mannella, 2014).

Reich dunque non soltanto rifiutava il concetto di pulsione di morte ma negava anche che l’angoscia di morte fosse un’esperienza precoce ed originaria. Come per Freud, anche per Reich essa rimandava analogicamente a qualcos’altro. Per Freud era un’equivalente della paura di castrazione, per Reich un equivalente della paura dell’orgasmo[4].

MANNELLA morteincameraMunch - Morte nella camera della malataMa veniamo al nostro modello.

Sicuramente condividiamo il rifiuto di Reich della realtà della pulsione di morte. Siamo convinti che la vita voglia la vita, che sia propria degli organismi la spinta non soltanto a sopravvivere ma anche ad accrescersi, ad evolversi, a dare origini a nuove forme di ordine e organizzazione[5]. Non è vero che all’esistenza sia connaturata la tendenza a ritornare ad uno stato pre-organico. La vita è volontà di potenza e tende incessantemente a creare nuove e più complesse forme dell’esistere.

Nello stesso tempo, e a differenza di Reich, la S.I.A.R. sostiene che dell’angoscia di morte se ne possa avere esperienza precoce – essa è la più originaria delle minacce disfunzionali di separazione[6] - e non debba essere considerata espressione analogica di altri vissuti. Non si radica dunque né nell’angoscia di castrazione (Freud), né nell’angoscia di separazione primaria (Bowlby), né tantomeno può essere considerata espressione della paura dell’orgasmo.

La S.I.A.R. considera l’angoscia di morte una possibile esperienza che si colloca ai primordi della nostra vita evolutiva, nel periodo intrauterino, in cui si ricevono impressioni determinanti per il nostro benessere psicofisico e la nostra attitudine alla vita.

Anche questo periodo, così come l’intero processo dello sviluppo evolutivo, ha un carattere relazionale. La relazione fra l’embrione/feto e la madre/utero è però qualitativamente diversa dalle interazioni sé/altro-da-sé nelle successive fasi evolutive caratterizzate dalla separazione fisica a seguito del parto e dal sorgere progressivo del campo di coscienza fino alla comparsa della soggettività.

La relazione fra il feto e la madre/utero è pre-soggettiva ed intercorporea, si attua attraverso un linguaggio biochimico. Gli stati biofisiologici vengono immediatamente registrati a livello nervoso centrale, traducendosi in stati emotivi di fondo di benessere o malessere.

In questo periodo evolutivo è attiva quella struttura mentale arcaica che Damasio ha indicato con il nome di proto-sé. Il proto-sé non ha linguaggio, “non ha capacità percettive e non detiene conoscenza” (Damasio, 2000, p.190), ma produce i sentimenti spontanei del corpo che vive: Il sentimento primordiale – “il sentire che il mio corpo esiste ed è presente, indipendentemente da qualsiasi oggetto con cui interagisca […]” (Ibidem). Esso si costituisce sulla base neurale del midollo allungato e traccia continuamente le mappe dello stato dell’organismo, dei suoi stati primordiali di benessere o malessere. Il proto-sé ha la funzione di integrare i segnali da e verso il corpo, di garantire l’equilibrio omeodinamico, quindi stimola l’embrione/feto a seconda degli stati biofisiologici della madre alla produzione o meno di sostanze volte a ristabilire o mantenere quell’equilibrio. 

Nel dialogo intercorporeo fra il feto e la madre non è dunque necessaria la realtà di una mente dotata di coscienza. Esplicativo da questo punto di vista è il fenomeno della nocicezione. Con questo termine si intende l’attività neuronale che avviene ogni qual volta l’informazione di uno stimolo negativo raggiunge i nocicettori (i recettori del dolore). Il fenomeno della nocicezione è diverso dall’esperienza del dolore.

“Con dolore si intende la presa di coscienza della informazione nocicettiva, allorché l'informazione dai nuclei talamici viene integrata nelle aree limbiche e corticali. Non esiste un sistema vivente complesso, per quanto primitivo, che non sia dotato di un sistema di segnalazione di eventi nocivi e che non abbia una capacità di automedicazione con oppiacei endogeni per lenire il dolore (dagli insetti ai crostacei, dagli uccelli ai mammiferi) (Ferri, PsicoterapiaAnaliticaReichiana, Rivista semestrale online n°2).

Ad esempio, “Il feto dalla 16ª settimana, in situazioni di stress (ipossiemia, emorragia, riduzione del flusso uterino), è in grado di ridistribuire il proprio flusso ematico, proteggendo organi come il miocardio e il cervello, determinando la vasocostrizione di distretti come quello splancnico, cutaneo e renale” (Ibidem).

L’esperienza dell’angoscia di morte primaria allora è propria di un embrione/feto che si trova a esperire vissuti stressanti che mettono in forse la sua sopravvivenza. Eventi traumatici – il trauma di una caduta, il profondo dolore per la morte di una persona cara, minacce di aborto - vissuti dalla madre e dalla famiglia sono esperite come minacce di separazione dall’altro-da-sé utero e quindi come possibilità reale di morte. Il feto che registra per un tempo significativo vissuti allarmanti non vive dunque un’esperienza di angoscia per la perdita dell’oggetto come nel caso della minaccia di separazione in fase oro-labiale o di castrazione nella fase genito-oculare, ma esperisce un’angoscia di morte, cioè la possibilità della morte biologica, della perdita di sé.

Non vale dunque l’affermazione freudiana che nell’inconscio non è presente nulla che possa dare un contenuto al nostro concetto di annientamento della vita[7], che non possiamo averne una rappresentazione psichica perché non possiamo averne l’esperienza nel mentre siamo in vita[8]. Possiamo averla eccome!! ed è registrata a livello nervoso centrale in forma implicita nella memoria corporea ed emotiva.

Numerosi sono i distretti cerebrali coinvolti. L’Amigdala che fa parte del sistema limbico, posta al di sopra del tronco encefalico. “È un centro di integrazione e giudica la valenza emotiva dei fatti avvenuti, fornisce la giusta attenzione e ne avvia l’immagazzinamento come ricordo” (Ferri,2012 PsicoterapiaAnaliticaReichiana, Rivista semestrale online n°1).

“Il Giro Anteriore del Cingolo […]. Fa parte del Sistema Limbico ed elabora a livello inconscio i pericoli […], una sorta di allarme silenzioso, evidente quando avvertiamo uno strano non so che di fronte ad un pericolo ancora non rivelatosi alla coscienza dell’Io” (Ibidem).

Ma soprattutto è il Locus Coeruleus ad essere coinvolto nell’esperienza di angoscia primaria. “Il Locus Coeruleus (o punto blu) è un nucleo situato nel Tronco Encefalico, nel Complesso Rettiliano, cervello pre-mondo dei mammiferi. Il Locus Coeruleus è all’origine della maggior parte delle azioni della noradrenalina (NA) nel cervello […] è coinvolto nelle risposte di panico. È il luogo preposto alle reazioni di paura in situazioni estreme e la sua attivazione può essere sollecitata sia da afferenze esterne al Sé via amigdala, sia da afferenze interne al Sé via Giro anteriore del Cingolo” (Ibidem).

L’angoscia di morte primaria per la S.I.A.R. è originaria; non ha a che fare con la perdita pur importante di questo o quell’oggetto. Se mai sono quelle esperienze - l’angoscia di separazione dalla madre o di castrazione - non dico a dover essere considerate espressioni analogiche della angoscia di morte primaria, ma a poter risentire o essere accentuate da quella.

È plausibile supporre che l’esperienza dell’angoscia di morte primaria sia comune perché è plausibile pensare che chiunque abbia sperimentato momenti disfunzionali durante la vita fetale. A variare è l’intensità e il tempo di tale esperienza; superata una certa soglia si viene a costituire un terreno biopsichico su cui potranno innestarsi particolari posizioni, tratti caratteriali e/o manifestazioni patologiche.

L’angoscia di morte primaria influisce sul nostro modo di rapportarci al mondo, nella strutturazione del nostro carattere. Consideriamo da questo punto di vista il masochismo.

La S.I.A.R. sostiene che il masochismo (come il sadismo) non si costituisca come tratto caratteriologico ma come posizione e distingue una “possibilità masochistica primaria, in relazione al primo campo, una possibilità masochistica secondaria e il sadismo, in relazione al secondo campo” (Ferri, Cimini, 2022).

Rivolgiamo la nostra attenzione al masochismo primario, in particolare, al masochismo primario di primo tipo, che più ci interessa per la nostra riflessione.

“Il masochismo primario di primo tipo è esemplificato da un embrione-feto, che esperisce una paura-allarme da minacce abortive o comunque stressors in senso lato. Quel piccolo sé, quando è a buona densità, per una chiara legge neghentropico-narcisistica (istinto alla vita), svilupperà il fenomeno del masochismo-narcisismo primario, […]. Il piccolo embrione-feto, allarmato, passerà energia alla madre-utero, la reggerà, la proteggerà, semplicemente perché la sopravvivenza dell’Altro da Sé, in quello stadio, è la sua […] È una modalità di risposta obbligata, prodotta dall’angoscia di morte, che in questo stadio è reale e non fantasmatica, perché la dipendenza è biologicamente totale” (Ibidem, p.108).

Sempre dal punto di vista dello sviluppo evolutivo e della formazione del carattere, può rappresentare un freno e rendere più problematiche le fasi di passaggio. Può determinare passività, trattenere in una fase o rendere più difficoltosa l’entrata nelle fasi successive. Può accentuare le difficoltà di separazione dal primo o secondo campo e dunque l’entrata nel terzo campo.

Dal punto di vista prettamente clinico, possiamo pensare che gli attacchi di panico, le nevrosi di angoscia e le nevrosi fobiche, le sindromi depressive, trovino nell’esperienza di angoscia di morte primaria il terreno biopsichico per la loro manifestazione.

Un discorso particolare meritano le affezioni psicotiche.

Per sviluppare appieno il nostro ragionamento dobbiamo preliminarmente considerare i possibili esiti dei vissuti disfunzionali nel periodo intrauterino. L’insufficiente relazione bioenergetica fra il feto e la madre può essere assoluta e comportare pertanto la morte del Sé.

Se le conseguenze non sono così nefaste, ci troviamo al cospetto di due diversi esiti. C’è una pronunciata differenza (quantitativa) fra l’angoscia di morte primaria vissuta da un individuo a buona densità energetica rispetto a quella esperita da un individuo a bassa densità energetica.

Se la relazione oggettuale primaria è stata decisamente disfunzionale per un tempo prolungato ci troviamo al cospetto di un Sé a bassa o bassissima densità energetica (il feto non è stato sufficientemente nutrito). Tale Sé svilupperà un’organizzazione di personalità labile, precaria, e sarà pressoché inevitabile che gli eventi stressanti della vita comportino la lisi delle coperture caratteriali non prevalenti attraverso cui il sistema aveva trovato una possibilità seppur precaria di organizzazione.

Quando questo accade, il Sé precipita nella disintegrazione psicotica, (angoscia di annientamento) cioè “le funzioni superiori dell’organismo si sfaldano nella stessa misura in cui si disintegra il loro fondamento emozionale e bioenergetico” (Ibidem, p.179). L’angoscia psicotica di annientamento è l’impossibilità “a frenare e fermare la dispersione, con esito in destrutturazione del Sé” (Ibidem, p.131).

Diverse sono le conseguenze se la relazione oggettuale primaria è stata insufficiente per un tempo significativo ma non prolungato fino al punto da impedire una sufficiente integrazione del Sé (il feto è stato sufficientemente nutrito). In questo caso siamo al cospetto di un individuo con una buona densità energetica che ha consentito la costruzione di una struttura caratteriale sufficientemente coesa e stabile. In tale individuo l’angoscia di morte primaria può raggiungere un’intensità tale da provocare la destrutturazione soltanto momentanea degli strati superiori della personalità e, comunque, il sistema si assesta su di un sé sufficientemente integrato nelle sue funzioni bioenergetiche.

 

 

[1]Per Freud “[…]il principio di morte è un’istanza che si colloca al di là dell’esperienza psicologica: è un postulato necessario per spiegare una serie di fenomeni che rimarrebbero altrimenti inintelligibili” (Freud, 1920, p. 119).

[2] Yalom cita la geniale critica di Klein alla risoluzione freudiana della paura della morte nella paura dell’evirazione Scrive la Klein: “La paura della morte rafforza la paura di castrazione e non è analoga ad essa …. Dato che la riproduzione è il modo essenziale per contrastare la morte, la perdita del mondo genitale significherebbe la fine del potere creativo che preserva e continua la vita” (Ibidem, p.85).

[3] Yalom rende merito alla Klein e a Winnicott che hanno affermato che “l’angoscia primaria è l’angoscia di annientamento, della dissoluzione dell’io, o dell’essere divorati” (Ibidem, p. 129).

[4] Per amore di completezza reputo importante considerare come Reich alla fine della sua riflessione sia caduto in contraddizione pervenendo ad affermare inconsapevolmente la realtà della pulsione di morte. Nell’ultima fase della sua riflessione l’esperienza dell’orgasmo non è eminentemente umana, ma diventa un evento cosmico, una funzione fondamentale dell’esistenza, quella della superimposizione cosmica (Reich W., Superimposizione cosmica, SugarCo, Milano, 1975). Con il concetto di superimposizione Reich intende sia la dinamica delle particelle di energia orgonica massa-esente che nel loro muoversi vorticoso si incontrano, si attraggono e si fondono (si superimpongono) dando origine alla materia inerte e poi a quella vivente, sia la tendenza dell’energia orgonica, una volta imprigionata nell’involucro materiale, a fuoriuscire attraverso l’amplesso sessuale dalla stretta sacca che la contiene al fine di ricongiungersi con l’oceano di energia orgonica cosmica primordiale. Non possiamo non constatare come egli finisca col riproporre l’affermazione del maestro che in Al di là del principio di piacere aveva affermato che l’istinto di morte si manifestava anche nella forma della tendenza intrapsichica degli uomini a ritornare ad uno stato di esistenza prebiologico. Si veda Mannella M., Wilhelm Reich. Il dramma e il genio, op. cit.

[5] Per questo sosteniamo con Maturana e Varela la considerazione dei sistemi viventi come macchine autopoietiche (Maturana H., F. Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia,1985)   e con Prigogine quella di strutture dissipative (Prigogine I.,   Stengers I., La nuova alleanza, metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino, 1999.

[6] Le esperienze di separazione dall’utero (nascita), dalla madre (svezzamento), dai genitori (uscita edipica), dalla famiglia (ingresso nel mondo sociale) sono necessarie al processo evolutivo e di individuazione della persona. Non sempre però accadono in maniera funzionale.

[7] Freud non è riuscito a comprendere l’angoscia di morte primaria perché non considerava il periodo intrauterino come un tempo evolutivo.

[8] Certo essa non può essere esperita consapevolmente, linguisticamente. A mio parere la psicoanalisi classica ha mancato di cogliere la funzione patogena dell’angoscia di morte innanzitutto perché non ha portato l’attenzione alla fase evolutiva intrauterina.

 

 

 

Bibliografia 

Damasio, A. (2000). Emozione e coscienza. Milano: Adelphi, 2000

Ferri, G. (2012), “Ansia, angoscia e panico”, in: PsicoterapiaAnaliticaReichiana, Rivista semestrale online n°1

Ferri, G. (2020), “I 500 giorni della relazione primaria”, in PsicoterapiaAnaliticaReichiana, Rivista semestrale online n°2

Ferri, G., Cimini, G. (2022). Carattere e psicopatologia. Roma: Alpes

Mannella M. (2014). Wilhelm Reich. Il dramma e il genio. Roma: Alpes

Maturana, H., Varela, F. (1985). Autopoiesi e cognizione. Venezia: Marsilio

Prigogine, I., Stengers, I. (1999). La nuova alleanza, metamorfosi della scienza. Torino: Einaudi

Reich, W. (1985). La funzione dell’orgasmo. Milano: SugarCo

Vegetti Finzi, S. (1986). Storia della psicoanalisi. Milano: Mondadori

Yalom, I. D. (2019). Psicoterapia esistenziale. Vicenza: Neri Pozza Editore

 

[*]Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta S.I.A.R., Membro dei Comitati Scientifico e Direttivo della S.I.A.R., Membro del board scientifico della collana CorporalMente dell’Editrice Alpes, Membro della redazione della Rivista PsicoterapiaAnaliticaReichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via Flaminia, 19-00196 Roma.

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