Numero 1/2024
PSICO-ONCOLOGIA E PSICOTERAPIA CORPOREA
Il filo invisibile tra mente e corpo
PSYCHO-ONCOLOGY AND BODY PSYCHOTHERAPY
The invisible thread between mind and body
Mariachiara Rossi[*]
10.57613/SIAR57
Abstract
Questo lavoro vuole provare ad aumentare la conoscenza di una grave condizione patologica, il tumore, partendo dalla nascita della Psico-Oncologia e analizzando svariati punti di vista, molto diversi tra loro, ma che presentano degli importanti elementi di convergenza. È stata, così, posta l’attenzione all’evoluzione dello sguardo rivolto al tumore, è stata presa in considerazione la lettura dello stesso che offre Reich, passando attraverso una visione di stampo psicoanalitico, per poi concentrarsi sull’epigenetica e giungere, infine, al modello post-reichiano della S.I.A.R.. Così facendo si è provato a dare al cancro e al suo sviluppo un nuovo significato, e alla persona ulteriori strumenti per affrontarlo e contrastarlo, giungendo ad approdi neghentropici.
Parole chiave
Psico-Oncologia – psicoterapia corporea – epigenetica – Modello Post-Reichiano – tumore – pazienti oncologici.
Abstract
This work aims to increase the knowledge of a serious pathological condition, cancer, starting from the birth of Psycho-Oncology and analyzing various points of view, very different from each other, but that present at the same time important elements of convergence. We focused on the evolution of the look towards tumor, considering Reich’s reading of it, passing through a psychoanalytic vision, then focusing on epigenetics and, finally, arriving to the post-Reichian model of the S.I.A.R.. In doing so, we tried to give cancer and its development a new meaning, and give the person further tools to face and combat it, reaching negentropic landings.
Keywords
Psycho-Oncology – body psychotherapy – epigenetics – Post-Reichian Model – tumor – cancer patients.
Questo scritto vuole essere:
- un percorso attraverso cui cercare di comprendere il significato che il tumore porta con sé;
- in che modo il corpo e la mente sono connessi in maniera indissolubile;
- come sia possibile lavorare sul livello organico attraverso un viaggio nella propria interiorità;
- quanto ciò possa condurre la persona a qualcosa di impensabile quando si tocca tale tema, ovvero ad una rinascita.
Per fare questo cercherò di leggere il tumore indossando le lenti della tridimensionalità, che rimanda al Dove? Come? Quando? Il cancro appare come una malattia multifattoriale a predominante base epigenetica, in quanto i cambiamenti del genoma non riguardano semplicemente le classiche mutazioni nella sequenza delle basi, ma anche l’espressione di sequenze geniche (epigenesi). In sostanza, per variare l’informazione genica è sufficiente modificare il programma di espressione delle informazioni contenute in quelle sequenze.
Oggi con l’epigenetica scopriamo che si può avviare la cancerogenesi senza alterazione strutturale del genoma, ma con modificazioni funzionali stabili (Bottaccioli, 2013). Tale nuova visione della malattia determina dei cambiamenti nell’analisi degli elementi che possono determinarla, in quanto ci si rende conto che, oltre a geni e ambiente, tra le cause vanno annoverati gli eventi da affrontare e la capacità di gestirli al meglio (Bottaccioli, 2013). Lo stile di vita e lo stress sono, quindi, associati all'insorgenza e alla progressione del cancro.
Da ciò deriva che al centro dell’oncologia non c’è più un incontro esclusivo con la malattia, ma si trova innanzitutto la persona, che porta con sé i caregiver, anch’essi immersi nella patologia del paziente.
L’approccio alla neoplasia, quindi, cambia profondamente e, basandosi sulle caratteristiche del singolo individuo, si assiste ad una personalizzazione della terapia e alla fondamentale importanza che rivestono la persona e la sua qualità di vita.
La nascita della psico-oncologia
I notevoli progressi ottenuti relativamente allo studio del tumore permettono, dunque, di mettere al centro l’individuo e di indagare ogni aspetto del paziente, tra cui la dimensione psicologica, che interviene nell’insorgenza del cancro e nel decorso della patologia. Tuttavia, questo è stato possibile solo dopo un lungo processo di cambiamento e in seguito al superamento di non pochi ostacoli, che hanno reso difficoltoso il graduale sviluppo di una nuova disciplina: la Psico-Oncologia. Essa oggi contribuisce alla presa in carico dei pazienti oncologici e dei loro caregiver, alla formazione del personale sanitario in merito alle condizioni e alle difficoltà psicologiche dei malati di cancro e dei Long Cancer Survivors, alla prevenzione e, infine, alla ricerca. Nel 1954 Blumberg e colleghi pubblicano l’articolo “Una possibile relazione tra fattori psicologici e il cancro umano” e Stephenson e Grace si concentrano sui fattori di vita stressanti e il cancro della cervice. Nel 1955, Reznikoff parla di “Fattori psicologici nel cancro al seno: Uno studio preliminare di alcune tendenze della personalità nei pazienti con cancro al seno”. Nel 1956, Fisher e Cleveland descrivono “La relazione tra immagine corporea e sede del cancro”, mentre Greene e Miller indagano i fattori psicologici e le dinamiche familiari nei bambini con leucemia. Fino agli anni ’60 non era previsto nessun supporto psicologico per i malati di cancro, ma solo un confronto tra coloro che avevano subìto e superato un intervento chirurgico di asportazione di una parte del corpo e i pazienti che temono di dover sottoporsi alle stesse procedure, spaventose ma spesso curative. Inoltre, più del 90% dei medici degli Stati Uniti non rivelava la diagnosi al malato, così come messo in luce da un sondaggio di Oken del 1961. È necessario attendere la metà degli anni '70 per far cadere la barriera alla rivelazione della diagnosi e rendere possibile parlare con i malati della loro condizione e delle implicazioni per le loro vite che ne derivano.
È così che prende avvio la Psico-Oncologia. La sua diffusione coincide con il 1975, quando un piccolo gruppo di ricercatori clinici si riunisce in una località del Texas, per la prima conferenza nazionale di tale disciplina, dove viene affrontato il tema della mancanza di strumenti per misurare quantitativamente sintomi soggettivi come dolore, ansia e depressione, che l’American Cancer Society finanzia. In Italia tale disciplina si diffonde a partire dal 1985, con la nascita della Società Italiana di Psico-Oncologia (SIPO), che ha l’obiettivo principale di promuovere la conoscenza, il progresso e la diffusione della Psico- Oncologia in campo clinico, formativo, sociale e di ricerca.
Anche in seguito a tali progressi, nel 1998, la mortalità per cancro negli Stati Uniti diminuisce per la prima volta e ciò determina una maggiore fiducia nell’assistenza psicologica. Prende così avvio la psicoterapia individuale e di gruppo per i malati oncologici, come interventi complementari alla terapia tradizionale, rispetto a cui già lo studio di Spiegel e colleghi nel 1989, seguito l’anno successivo da quello di Fawzy e colleghi, riferiscono che le sessioni di gruppo per il cancro al seno e per il melanoma maligno hanno un impatto positivo sulla sopravvivenza. Nel setting terapeutico si può finalmente lavorare andando in profondità, raccogliendo elementi che riguardano il percorso che ha condotto la persona nel qui ed ora e si può porre l’attenzione anche sui possibili fattori psicologici che contribuiscono all’insorgenza della patologia. La visione dell’organismo umano, dunque, appare quella di una unità strutturata e interconnessa, dove i sistemi psichici e biologici si condizionano.
Wilhelm Reich e la biopatia del cancro
Wilhelm Reich nel corso della sua attività si interessa alla studeio del cancro e di quella che definisce "biopatia carcinomatosa", adottando una prospettiva diversa da quella del suo tempo, offrendo degli importanti spunti di riflessione e dimostrando di avere delle intuizioni che , in parte, possono essere ritrovate oggi. L’autore affronta tale tematica nel corso delle sue ricerche portate avanti dal 1930 al 1947, che rende note nel suo testo “La biopatia del cancro”, pubblicato per la prima volta nel 1948. Nel libro, che è la diretta continuazione dello scritto “La funzione dell’orgasmo”, viene fornita una spiegazione sull’origine e sullo sviluppo della patologia, si offrono delle possibilità per curarla e, soprattutto, per prevenirla, attraverso delle considerazioni innovative e coraggiose, che mettono in luce delle tesi che soltanto molto tempo dopo diventeranno significative. Il primo elemento evidenziato riguarda la necessità di tenere conto del peso che gli aspetti emozionali hanno nell’insorgenza delle patologie mediche e, quindi, anche nell’eziologia del tumore.
In secondo luogo, egli pone la sessuopatologia al centro dei suoi studi sul tema in oggetto, dando ad essa un’estrema importanza. Infine, parla di una nuova energia cosmica da lui definita “orgone”, che è presente ovunque, non segue le leggi meccaniche e permette di comprendere in maniera immediata l’origine del cancro, in quanto il blocco della stessa è da considerarsi causa di diverse patologie. Con il termine biopatia l’autore intende “tutti i processi morbosi che hanno luogo nell’apparato vitale autonomo, (…) una tipica malattia di fondo di tale apparato che – una volta messa in moto – riesce a manifestarsi in tutta una serie di quadri clinici sintomatici” (Reich, 1948, pp. 183-184). Essa ha inizio da un disturbo della pulsazione e il tumore maligno viene considerato come il sintomo tardivo di un grave processo patologico generale che precede di anni l’effettiva formazione del tumore stesso.
Secondo Reich, “l’atrofia biopatica nella canceropatia è effettivamente una conseguenza della lunga e cronica contrazione dell’apparato vitale autonomo” (Reich, 1948, p. 187). Reich si sofferma, innanzitutto, sul ruolo fondamentale della psicoterapia, che dovrebbe affiancare la terapia medica basata esclusivamente su sintomi organici, in quanto ci sono degli aspetti che non possono essere presi in considerazione da quest’ultima. Rispetto a questo, si può affermare che ad oggi, all’interno dei reparti di oncologia, la presenza di uno Psico-Oncologo che si occupi delle paure del malato, dei suoi vissuti emotivi e che sia capace di integrare la storia della malattia con quella della persona, viene vista come una parte integrante della cura della patologia. Inoltre, l’autore si concentra sul percorso di vita del paziente, al fine di poter comprendere a cosa sia dovuta l’eziologia di una malattia come il cancro. Per fare questo, non si ferma alla superficie, ma va in profondità, raggiungendo la fase intrauterina, per poi concentrarsi su quella oro- labiale, in cui si gettano degli spunti per approfondire il tema della relazione con il piccolo (rapporto tra angoscia materna, piacere del neonato e qualità del contatto) e proseguire con la conoscenza delle varie stazioni della vita e dei passaggi fondamentali che riguardano ogni individuo.
Nel periodo attuale ci sono sempre più riscontri nella pratica clinica e nella ricerca scientifica che mettono in luce, da una parte, una buona risposta alle terapie mediche di coloro che portano avanti un percorso di psicoterapia e, dall’altra, la presenza di modificazioni epigenetiche che dipendono dall’interazione con l’ambiente, dagli eventi di vita e dalle risorse messe in campo per fronteggiarli.
Psico-oncologia nella visione psicoanalitica
Negli ultimi anni, non di rado, si parla della continuità tra aspetto psichico e corporeo in merito alla malattia oncologica, si sottolinea che il lavoro psicologico profondo, come quello che viene portato avanti in psicoterapia, può influenzare la qualità
di vita della persona, le sue relazioni, il decorso della malattia e può consentire di attivare risorse interne per far fronte a quest’ultima. Una cattiva qualità di vita, ad esempio, si correla ad una più rapida progressione della malattia, pertanto, intervenendo su tale fattore si agisce anche sulla sopravvivenza. Ciò può avvenire dando un senso alla neoplasia, fornendo ai pazienti delle nuove esperienze relazionali e la possibilità di costruire una rinnovata visione di sé e del proprio percorso.
Non si vuole escludere la presenza di una causa biologica o genetica che consenta di spiegare il meccanismo della formazione del tumore, ma si ritiene che si possa affiancare ad essa la ricerca di un significato della malattia nella storia della persona. Mettendo gli occhi su tutto ciò è possibile che il paziente acquisisca la consapevolezza che la patologia “non è un evento casuale o solamente ‹‹esterno››, ma che esso è profondamente intrecciato con la sua esistenza e la sua personalità, se vi sono stati o sono tuttora presenti dei disagi, riprenderà in considerazione la possibilità di riavere un potere nel recupero della propria salute, sciogliendo appunto quelle difficoltà presenti nella sua vita. Non si tratta di fare nessuna opera di convincimento in quanto, dietro la superficie, nel suo intimo, ogni paziente, essendo testimone delle vicende della sua esistenza, ha subito le prove di questo collegamento tra storia di vita e storia di malattia” (Catanzaro, 2008, p. 26). Secondo Catanzaro, infatti, “il sintomo e la malattia avvengono quando, per un sentimento di insopportabilità, non si riesce più a pensare e a sentire un evento della vita, che pertanto viene rimosso e non elaborato. Il prezzo di questa rimozione, che consente di evitare una sofferenza psicologica, è la malattia somatica” (Catanzaro, 2008, p. 33). Dunque, l’autore evidenzia che il compito dello psicoterapeuta sarebbe quello di far emergere quanto è stato rimosso, al fine di permettere alla persona di comprendere che dentro se stessa può trovare il senso di quanto sta accadendo, permettendole di compiere un passo decisivo verso un processo di cambiamento che potrebbe condurre ad una cronicizzazione della malattia o alla guarigione. Allo stesso tempo, Chiozza mette in evidenza che nei malati oncologici la neoplasia spesso insorge in corrispondenza di un evento drammatico, i cui connotati affettivi, rimossi e occultati alla coscienza del paziente, non riescono ad essere sentiti e vissuti come tali in maniera manifesta. Il loro posto viene, così, occupato dalla malattia, che può essere interpretata come un affetto rimosso e determinato dalla perdita di una persona che ha per il paziente un’importanza vitale. Ciò costituisce un dramma affettivo che può condurre all’insorgenza della neoplasia, la quale si basa su quella che Chiozza e Catanzaro definiscono una fantasia inconscia, ovvero il desiderio di annullare la separazione.
La malattia in oggetto, inoltre, pur avendo i medesimi meccanismi, ha dei diversi comportamenti in base all’organo colpito e, allo stesso tempo, anche il dramma psichico rimosso (definito così in quanto la persona non è consapevole degli affetti ad esso correlati) presenta caratteristiche differenti in base alla localizzazione del tumore. Pertanto, esso appare diverso in una persona affetta da cancro al polmone rispetto ad un’altra che presenta un tumore della mammella. Secondo le Linee Guida AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica) del 2021, il tumore più diagnosticato nelle donne è quello mammario, il cui rischio di ammalarsi è maggiore con l’aumentare dell’età. Catanzaro mette in evidenza che il latte e l’allattamento al seno, rappresentando una specificità della donna, fanno riferimento ad una discendenza matrilineare in cui ci sarebbe una fusione tra le figure femminili, una confusione tra madre e figlia che, non presentando confini e limiti, non possono costruire una propria identità. In questa condizione, l’allontanamento dall’altro, la sua perdita, corrisponde ad una perdita di sé e della propria identità che non può essere tollerata: ciò determina una modificazione somatica.
Dall'epigenetica al modello post-reichiano
Anche la ricerca scientifica si è concentrata su tale tema, mettendo in discussione il paradigma cancerogenetico fino ad oggi dominante che interpreta il cancro come un incidente genetico causato da mutazioni sequenziali. In quest’ottica sembra che ci sia una particolare attenzione al riconoscimento di un ruolo attivo dell’ambiente e, a tal proposito, si può fare riferimento all’epigenetica, ovvero una recente branca della scienza che studia le influenze delle condizioni esterne sul genoma (termine introdotto nel 1942 dal biologo inglese Conrad Waddington). Essa, guardando al DNA come ad una struttura che si attiva sulla base di segnali provenienti dall’ambiente circostante, cerca di indagare in che modo le informazioni e gli stimoli esterni possono modificare il nostro fenotipo (cioè l'insieme delle caratteristiche manifestate da un organismo vivente, determinate dall’interazione tra la sua costituzione genetica e l’ambiente, quindi la morfologia, lo sviluppo, le proprietà biochimiche, fisiologiche e comportamentali).
Accade, infatti, che “gli stimoli biochimici esterni agiscono come un interruttore on-off su determinate sequenze geniche, silenziando o attivando i geni corrispondenti, o aumentandone e diminuendone l’attività. Questi cambiamenti non solo possono essere trasmessi alle generazioni successive, ma sono tanto più incisivi sull’organismo quanto più precocemente avvengono: vale a dire nella vita fetale e nell’infanzia, poiché l’incompleto sviluppo e l’immaturità dei meccanismi difensivi, rendono il bambino molto più vulnerabile dell’adulto. Non è necessaria quindi una alterazione della sequenza del DNA, per cambiare completamente le nostre espressioni fenotipiche. Ma a differenza della mutazione che quando si verifica è irreversibile, la fluidità dell’epigenoma consente che la funzione normale venga ripristinata ritornando allo stato iniziale, eliminando lo stimolo esogeno” (Balestreri, 2013).
Dunque, inizia a svilupparsi un paradigma differente, in base al quale la cancerogenesi è un processo attivo e reattivo nel genoma sottoposto a fattori stressanti. Una maggiore produzione di neurotrasmettitori e ormoni dello stress può, infatti, causare un aumento della proliferazione cellulare mediata sia dall’incremento dei fattori di crescita indotto da noradrenalina e adrenalina, che dal cortisolo. Quest’ultimo ha un effetto proliferativo in quanto inibisce l’espressione di geni che regolano l’apoptosi cellulare, grande risorsa contro la riproduzione incontrollata, e può provocare un’alterazione della risposta immunitaria, la quale, a sua volta, può causare un’infiammazione che porta allo sviluppo delle metastasi.
Inoltre, un altro meccanismo studiato è quello che lega lo stress alla riduzione della lunghezza dei telomeri, le porzioni finali dei cromosomi che conferiscono loro stabilità. Ci sono, infatti, delle prove sperimentali e cliniche a sostegno del fatto che lo stress cronico causa un loro accorciamento fin dalle prime fasi della vita (Drury, 2012) e ciò rende il genoma instabile e più soggetto ad alterazione in senso cancerogenetico (Martinez, Blasco, 2011).
Più recentemente, il National Child Development Study, uno studio prospettico con un campione di oltre seimila persone nate negli stessi giorni cinquant’anni prima, ha potuto stabilire che le donne che subiscono una o più esperienze avverse nell’infanzia hanno un’incidenza del cancro doppia rispetto a chi nel medesimo periodo non vive situazioni dolorose (Kelly-Irving 2013).
Esperienze di vita reale
Le parole scritte fino a qui hanno avuto il compito di fornire delle basi per poter portare delle esperienze di vita che possano fungere da modelli attraverso cui provare a fare delle ipotesi e cercare di muoversi dentro le conoscenze esposte. Le esperienze sono quelle delle persone a me più care, i miei più importanti riferimenti affettivi; sono quelle di tre donne che sono state portate via, in tempi diversi ma non lontani, da una patologia comune: il carcinoma. È forse già possibile intuire che si tratta di una famiglia in cui i legami tra le figure femminili sono estremamente forti, tanto che il tema della separazione non è stato mai realmente pensato prima dell’insorgenza della neoplasia. Non ho notizie dettagliate rispetto alla loro storia biografica, però, sono a conoscenza di elementi che potrebbero avere un significato, anche nell’insorgenza della malattia, che per ognuna di loro si sviluppa in un diverso livello corporeo, anch’esso ricco di senso.
Mia madre è la prima di quattro figli desiderati, di cui mia nonna è in attesa appena raggiunta la maggiore età. La sua prima grande separazione è caratterizzata da notevoli difficoltà, in quanto la figura materna ha un’emorragia durante il parto, che non si riesce ad arrestare. La situazione è tanto grave da far pensare che non sarebbe sopravvissuta: c’è una minaccia di morte durante la nascita. Si può immaginare il terrore e il disorientamento, sia per la piccola che per la giovanissima mamma; tra loro non può esserci un immediato contatto corporeo, che avrebbe consentito alla neonata di riconoscere l’odore e il sapore della figura con cui nei mesi precedenti si era stabilito un fortissimo legame.
Nel periodo successivo al parto ci sono altre consistenti perdite di sangue e la situazione continua ad essere di pericolo. È evidente, quindi, uno stato di allerta da parte di entrambi i genitori, che sono impegnati nella ricerca di un medico in grado di risolvere la difficile situazione. È in questo clima che la piccola è allattata. Si può dedurre che il latte, così come il contatto emotivo, non sia, almeno in un primo momento, affettivamente nutriente, ma caratterizzato da allarme e paura.
Dopo alcuni anni, durante l’attesa della seconda figlia, si verifica per la madre un tragico evento: il fratello minore perde la vita a causa di un incidente sul lavoro. A distanza di tre mesi dall’accaduto nasce la piccola, mia zia. Nell’ultima parte della gravidanza, dunque, la madre è impegnata ad elaborare un lutto tanto drammatico quanto improvviso, che la distoglie dalla relazione amorevole precedentemente instaurata con la neonata-feto e, nel medesimo clima che si colora di un’emozionalità negativa, mia zia viene allattata. Per entrambe le sorelle, dunque, i primi segni incisi raccontano di calde emozioni che vengono, però, bruscamente interrotte per lasciare spazio a un’intensa angoscia e paura nel primo caso, e ad un profondo dolore nell’altro. La prima separazione, quindi, provoca delle ferite incise sul corpo. Nonostante questo, il legame tra le tre è molto forte, seppur in parte conflittuale con la figura materna.
Mia madre, che è stata la prima a venire alla luce, è stata anche la prima ad ammalarsi di un carcinoma alla mammella. La sua diagnosi arriva in una vita caratterizzata da difficoltà: due dei tre figli in piena adolescenza, frequenti liti con mio padre con cui inizia a farsi strada l’idea concreta della separazione, un lavoro come Dirigente Medico che la assorbe molto e in cui fatica a mettere dei limiti, e patologie organiche da affrontare. La mia relazione con lei, inoltre, fino a quel momento si caratterizzava per la sua capacità di occuparsi costantemente di me anche in qualità di medico, a causa di svariati problemi fisici avuti fin dall’infanzia. Ciò a garanzia di un’ulteriore vicinanza emotiva. Tuttavia, alcuni mesi prima si risolve un mio problema medico protratto negli anni e ciò determina una mia maggiore apertura verso l’esterno e un più marcato tentativo di distacco dalla famiglia di origine.
Sono molte, dunque, le separazioni che mia madre si trova ad affrontare: quella da mio padre, dai due figli adolescenti, la cui attenzione è rivolta verso un terzo campo attraente, e da me, con cui il rapporto sembra acquisire una forma diversa. In questa situazione, caratterizzata anche da conflittualità, mia madre abbandona quella dolcezza e femminilità che può essere rappresentata da un caldo seno materno, per indossare gli abiti di una risoluta combattente. Proprio in questo momento il seno, luogo del nutrimento affettivo e simbolo dell’unione, del legame di attaccamento tra il piccolo e la figura materna, viene colpito. Questa è una zona densa di contenuti affettivi che si trova nel torace, la sede della soggettività, il livello corporeo relativo alla capacità muscolare, all’energia aumentata e organizzata che permette di andare nel mondo. E forse proprio quel torace stava perdendo il nutrimento affettivo di cui era bisognoso. Si è quindi, chiuso, contratto, diventando più vulnerabile, anche alla malattia.
Questa volta, però, il grande lavoro fatto l’ha salvata da qualcosa che si sarebbe però ripresentato molti anni dopo. Qualche anno dopo anche mia zia, la sorella di mia madre, si trova ad affrontare un carcinoma ai polmoni che, come viene prontamente comunicato, non le lascia molto tempo di vita. La diagnosi arriva quando il tumore è ormai all’ultimo stadio, in quanto, nonostante i numerosi controlli eseguiti, la grave situazione clinica viene attribuita, sia dai medici che da mia madre, ad un’altra causa connessa con altri problemi di salute. La malattia arriva in un momento molto delicato della vita di mia zia, che ha delle difficoltà, serie e protratte nel tempo, legate al lavoro. Queste la portano a vivere un periodo di crisi e di grande malessere, al punto tale da ipotizzare la possibilità di lasciare la sua occupazione, conquistata negli anni.
Anche in questo caso si può intravedere il fantasma della separazione, che richiama i segni incisi relativi alle esperienze delle prime fasi di vita; stavolta, però, il distacco è dall’attività lavorativa e da un ruolo che ha per lei un’estrema importanza e valenze anche affettive. Mia zia, che non ha creato una nuova famiglia, è immersa nel lavoro, che riveste per lei un ruolo fondamentale e non sono rari i momenti in cui, per concentrarsi su questo, toglie spazio a momenti di svago e in cui poter prendere aria. Ed è proprio quanto accade: a causa del tumore a lei manca l’aria, di cui ha una grande necessità.
In questa situazione il luogo corporeo in cui la malattia si sviluppa è, ancora una volta, il quarto livello, il torace, ma in una posizione diversa, che sembra portare con sé un differente significato. È l’ossigeno che viene meno e ciò può essere visto come la mancanza di un’energia strutturata che permette di risalire verso una riorganizzazione neghentropica. Il torace, sede corporea della fase muscolare, sembra non riuscire più a sostenere l’azione: non ha la possibilità di espandersi per poter respirare. Forse quel torace, che ha sempre supportato un carattere determinato e forte, ha accolto delle richieste eccessive; a lui è stato domandato molto, esaurendo, così, la disponibilità di energia necessaria per sostenere dei carichi, soprattutto se troppo pesanti. Questa donna, tanto solare quanto tenace, perde per la prima volta una sua battaglia.
In una condizione di grande dispiacere, mia madre porta con sé il senso di colpa per non aver compreso in tempi brevi l’origine della patologia di mia zia, accompagnato da un dolore divorante, in quanto il legame tra le due è da sempre tanto profondo da essere simbiotico. Un dolore che prova a tenere nascosto per cercare di sorreggere me e i miei fratelli, fortemente provati dalla situazione, fino a quando la sua sofferenza emotiva diventa anche fisica. Infatti, soltanto due mesi dopo la scomparsa di mia zia, le viene nuovamente diagnosticato un carcinoma, questa volta al pancreas. Un tumore nel sesto livello, nella zona addominale, nell’area corporea della visceralità primaria, del legame profondo e simbiotico che, con la morte di mia zia, viene negato. Il dolore, così intenso e difficile da accogliere ed elaborare, potrebbe, quindi, essersi espresso sul corpo.
La perdita, non più fantasmatica ma reale, questa volta sembra troppo difficile da digerire per una persona il cui primo momento di passaggio è stato accompagnato da una minaccia di morte e il successivo approdo è caratterizzato da angoscia e allarme. Il tumore, che si sviluppa in tale sede corporea, sembra colpire il tempo della pre-soggettività. Della triade femminile rimane solo la madre di queste donne spezzate dalla malattia ma, ancora prima, dalle dure prove da affrontare fin dalla vita intrauterina. Ma anche lei riceve la diagnosi di carcinoma alla mammella con la presenza di diffuse metastasi che ricoprono quasi interamente l’area polmonare. La data presentata non corrisponde, però, all’insorgenza della neoplasia in quanto, pur non essendo a conoscenza del periodo esatto in cui questa si sviluppa, l’ultima mammografia effettuata risale all’anno che precede la malattia e la perdita di sua figlia. Prima di allora nessuna patologia era in atto. Da questo si può derivare che la comparsa del tumore è parallela o immediatamente successiva alla perdita di una o di entrambe le figlie, ovvero ad una separazione che richiede ad una madre una forza di cui non sempre si può disporre.
È, infatti, il quarto livello, già profondamente ferito, ad essere colpito, questa volta nella sua interezza. È un torace stremato, che non ha più a disposizione quell’affettività calda e accogliente che si può offrire con il proprio seno durante l’allattamento, né l’energia per continuare il proprio viaggio nel mondo; probabilmente è solo desideroso di arrendersi. E così fa’: quel torace, che è sempre stato fonte di grande nutrimento per tutti e di dirompente forza vitale, si arrende. Rivivere questi anni della loro storia, che è anche la mia storia, lascia un grande vuoto che, però, è pieno di importanti spunti di riflessione da utilizzare per un nuovo movimento, questa volta verso la vita.
L’analisi reichiana con i pazienti oncologici
L'epigenetica, come detto, parte dall’idea secondo cui è presente una costante interazione tra genoma e ambiente, che determina il fenotipo. In base a questo assunto e ad esperimenti effettuati da Kandel, emerge che le memorie possono essere modificate attraverso processi di apprendimento, ovvero tramite la formazione di nuovi circuiti neuronali. La psicoterapia, in particolare, mediante tale processo in grado di influenzare l’espressione genica e di modificare le connessioni sinaptiche, va a determinare cambiamenti di pattern comportamentali.
Le parole, quindi, modificano la plasticità del sistema nervoso centrale. Ciò dà una misura della rinnovata visione che ha portato lo Psico-Oncologo ad essere presente in ogni reparto di oncologia. Quindi, un lavoro psicologico profondo potrebbe permettere alla persona di portare gli occhi sulla sua storia di vita attraverso una specifica appropriatezza, fino ad arrivare ad una nuova comprensione della sua narrazione biografica e della patologia. Questo può essere fatto in un contesto in cui il rapporto tra il terapeuta e il paziente, secondo Schore, andrebbe ad attivare i circuiti cerebrali dell’emisfero destro, dove è possibile collocare il sistema che regola la relazione di attaccamento nella diade primaria, determinando dei cambiamenti nella regolazione dell’affettività e dell’espressione emotiva.
La relazione terapeutica, quindi, attraverso un processo di apprendimento, sarebbe in grado di indurre dei cambiamenti epigenetici nei circuiti cerebrali, fornendo un’esperienza riparativa. Questo appare oltremodo vero nella psicoterapia corporea, la quale, oltre al rapporto tra la diade composta da terapeuta e paziente, introduce anche un terzo elemento, il corpo, che rende il dialogo tra i due un trialogo, da cui non si può prescindere. Esso aggiunge l’Inter-corporeità alla relazione, che si può trovare già nella fase intrauterina, la quale crea le basi per l’emergere dell’Inter-soggettività.
È il corpo, infatti, che porta nuovi significati, è in esso che si possono trovare gli imprinting delle prime relazioni oggettuali ed è attraverso questo che ci può essere un metalinguaggio che si riferisce ed include entrambe le possibilità comunicative, ovvero quella verbale e corporea. La corporeità, inoltre, sempre in un’ottica relazionale, offre un’ulteriore fondamentale possibilità, ovvero quella dell'attivazione incarnata terapeutica, cioè la Vegetoterapia Carattero-Analitica e alle attivazioni corporee su cui si basa. Queste rappresentano specifici movimenti ontogenetici, che muovono la persona da dentro, necessari per esplorare la storia degli schemi relazionali stratificati nelle fasi evolutive, nei passaggi tra le fasi e nei livelli relazionali corporei. “Essi non solo riattualizzano il come delle relazioni oggettuali parziali (…), ma propongono una possibilità di un nuovo prototipo di relazione oggettuale nel qui e ora. (…) Gli acting raccordano il lì e allora con il qui e ora (…) e formano nuove mappe cerebrali” (Ferri, 2017, p. 136).
Portando il corpo in psicoterapia, anche attraverso l’attivazione corporea, si ha, quindi, uno strumento aggiuntivo che va oltre l’uso esclusivo della parola e ciò può consentire di modificare altre sinapsi e neuromediatori relativi a un dato livello corporeo, determinando così cambiamenti comportamentali e nell’affettività. Questo, inoltre, permette di prendere contatto con i segni incisi nel corpo, che corrispondono a segni epigenetici stratificati in una direzione bottom up sulla freccia del tempo delle fasi evolutive. Affinché ciò sia possibile è, però, fondamentale che l’attivazione corporea sia appropriata e ripetuta nel tempo, in quanto la ripetitività appare indispensabile per una nuova stabilizzazione epigenetica.
BIBLIOGRAFIA
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[*] Psicoterapeuta, analista reichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. viale Martiri della libertà, 6 Fermignano (PU).