Numero 1/2024
il corpo sa
storie di psicoterapia in supervisione
di genovino ferri
alpes edizioni, 2017
collana CorporalMente
dalla Prefazone di Gianni Francesetti*
Vorrei condividere con il lettore alcune considerazioni, nella speranza che possano essere d’aiuto per far emergere alcune specificità di questo volume.
Innanzitutto si tratta di un testo sulla supervisione: se guardiamo alla letteratura corrente in ambito psicoterapeutico e clinico, possiamo notare che questo tema è trattato minoritariamente, se non quasi marginalmente. Le ragioni sono molte, fra cui - credo - anche il rischio pervasivo di autosufficienza e autoreferenzialità caratteristico del campo sociale e culturale in cui viviamo.
Ben venga, quindi, una riflessione approfondita come questa sul processo di supervisione: ritengo infatti che questa vada intesa non solo come un sostegno specifico da attivare nei momenti di difficoltà, ma piuttosto come una dimensione che accompagna la professione dello psicoterapeuta in modo costitutivo e ininterrotto, dalla prima all’ultima seduta. E’ un luogo terzo rispetto alla relazione terapeuta-paziente, un’area più ampia nella quale la relazione terapeutica può attecchire e crescere, senza impazzire, sviluppando un’ascensione neghentropica virtuosa (per tentare di usare una terminologia che il lettore troverà nel testo). E’ dunque un livello dell’esperienza professionale che prende forma concreta negli incontri di supervisione, ma che resta un luogo di esperienza in ogni momento dell’agire psicoterapeutico.
In secondo luogo, il titolo: ‘Il corpo sa’. Un’affermazione lapidaria che riprende e ravviva il contributo fondamentale di Wilhem Reich alla psicoterapia: la centralità del corpo. Dopo la svolta relazionale possiamo parlare oggi di una svolta corporea in psicoterapia, dove tutti gli approcci, in modi diversi, riconoscono ed esplorano la dimensione corporea della relazione.
In questo libro il corpo è il manifestarsi concreto e fedele della storia della persona e delle sue relazioni; il testo da decifrare per cogliere la scrittura dei mondi attraversati e la tensione verso orizzonti nuovi; lo strumento di lavoro per eccellenza attraverso cui passa il cambiamento, l’emergere di nuovi funzionamenti, la spinta neghentropica che il terapeuta deve intercettare e sostenere. Il corpo che sa è il corpo custode delle esperienze attraversate, fedelmente precipitate nelle pieghe della nostra biologia e irradianti senza posa il messaggio vitale che spinge verso l’ulteriore evoluzione.
Un aspetto che emerge con chiarezza da questo libro è che il modello reichiano sviluppato e utilizzato dall’autore fornisce una mappa altamente strutturata per orientarsi nel territorio della clinica. L’esperienza che ho fatto leggendolo è di avventurarmi nelle storie cliniche attratto dal fascino dei vissuti e delle cronache dei pazienti e di ritrovarmi poi, quasi sorpreso, in uno spazio architettonico che prende forme per me sconosciute ma allo stesso tempo limpide e chiarissime. La mappa utilizzata dall’autore direi che è strutturata, multifocale, temporalizzata, olistica. Strutturata in quanto costituita da parti definite e interdipendenti che forniscono una lettura molto articolata di quanto sta accadendo in terapia e un orientamento su come procedere per sostenere lo sviluppo dei processi di cura; multifocale in quanto la situazione clinica viene osservata e compresa non solo a partire dal modello teorico reichiano, ma anche integrando gli aspetti psicopatologici e clinici con raffinatezza e precisione; temporalizzata, in quanto consente di dispiegare il senso dei fenomeni clinici lungo una linea temporale che abbraccia tutto l’arco della vita e anche i fenomeni transgenerazionali; temporalizzata anche perché capace di disegnare il segmento temporale in cui lo specifico momento terapeutico si situa; olistica, in quanto tiene insieme i diversi livelli dell’umano scomponendoli didatticamente ma senza mai perderne l’unità inscindibile.
Da tutto ciò emerge la pulizia e la chiarezza del modello, capace di offrire al clinico un orientamento sicuro. In particolare, il lettore potrà apprezzare l’integrazione fra la prospettiva analitica e quella psicopatologica, mai appiattita sulla categorizzazione e sul riduzionismo, una compresenza che non può essere solo il risultato di un intento o di un programma, ma che può emergere solo da una profonda e vasta esperienza clinica come quella che l’autore ha maturato. Un elemento di rischio che corriamo ogni volta che ci orientiamo a partire da una mappa è quello di perdere di vista il territorio e di pensare che la mappa sia il territorio.
Mi sembra di individuare in questo approccio almeno due elementi correttivi per questo rischio: il primo è la natura dialogica e gruppale del modello di supervisione descritto. Il gruppo costituisce di per sé un elemento terzo alla relazione duale supervisore/terapeuta, correggendo, anche a questo livello, i rischi di autoreferenzialità. Nel leggere i casi narrati, si respira un’aria di libertà nelle stanze ampie e rigorose della teoria, un atteggiamento che combina la nettezza delle linee della mappa con la libertà di abitarle. Il pensiero laterale, creativo, divergente, critico sembra fluire libero nel gruppo di supervisione per poi trovare comodità nei limen della mappa, che emerge dai resoconti come una guida per leggere-attraverso.
Il secondo elemento correttivo per non perdere il territorio e restare solo nella mappa, mi sembra essere proprio la centratura corporea: il corpo del paziente e quello del terapeuta sanno. Il corpo è il territorio: se lo si perde lo si sente, o si farà sentire. La sensibilità corporea del terapeuta è uno strumento sensibilissimo – se allenato – a cogliere se siamo in contatto con l’altro oppure no, se stiamo cogliendo una spinta evolutiva e quindi sostenendo un processo di crescita o meno. E proprio il focalizzare il sentire, sempre mutevole e in fondo mai completamente dicibile, ci salva dall’oggettivare il corpo e perderne quindi la relazione vissuta e intersoggettiva. Una testimonianza della cura per utilizzare la mappa concettuale senza perdere il territorio, viene anche dalla capacità di adattarla a setting diversi: ho ammirato il modo in cui il supervisore sostiene i terapeuti ad utilizzare questo modello in contesti che richiedono setting flessibili, nei servizi pubblici dove le regole del gioco sono diverse da quelle della stanza privata dello psicoterapeuta. Ritengo che la psicoterapia debba diventare sempre più una agorà-terapia, sapendosi adattare ai cambiamenti del tempo e alle esigenze nuove che di volta in volta emergono nel campo sociale. A questo proposito, anche il respiro interdisciplinare dal quale nasce questo testo testimonia di questo sguardo su quel che accade attorno, basta scorrere la bibliografia per accorgersi del tessuto di fili che collegano le riflessioni dell’autore con le contiguità culturali filosofiche e scientifiche a vari livelli.
Leggendo le pagine di Genovino Ferri ho ritrovato le radici della sensibilità al corpo in psicoterapia, il contributo fondamentale che Reich ha dato a tutti noi, e ho riprovato la gratitudine per chi ha saputo avventurarsi - in tempi pionieristici - in una dimensione negletta, per scoprire terre nuove che una volta scoperte si rischia di dare per scontate.
Grazie quindi a Genovino Ferri per questo viaggio nella clinica, nel tempo, in una sensibilità interdisciplinare, in una dimensione corporea che, anche se da prospettive diverse, riguarda ogni approccio alla cura.