Numero 1/2024
Come se io non ci fossi
La mancanza della percezione di esistere
Marina Pompei*
"L'anima ha bisogno di un luogo"
(Plotino)
Ho letto un romanzo tremendo[i]. L’ho letto perché l’ha tradotto dal croato l’amica che me lo ha regalato, altrimenti l’avrei lasciato in uno scaffale della mia libreria dopo aver letto la quarta di copertina con le parole dell’autrice Slavenka Drakulić: “Ci sono cose che non si possono descrivere, e in ogni lingua esiste una parola per classificarle: indescrivibili. Come scrittrice, io mi sentivo sfidata a descrivere l’indescrivibile. Volevo andare oltre il punto dove i racconti delle donne bosniache si erano interrotti, inventare le parole per loro, dare voce al loro silenzio.” L’ho letto perché non ero da sola a sostenere quell’orrore, sentivo la mia amica con me e così ho letto la storia di S. salita insieme ad altre donne su quell’autobus che le fa percepire per la prima volta che “il suo corpo non appartiene più solo a lei e che d’ora in avanti deve tenerne conto…” (p.19).
È una storia di massacri e torture vissute pochissimi anni fa, proprio ieri e proprio vicino, a pochi chilometri da noi nella nostra attuale intelligente e cristiana Europa! Donne usate come oggetti, come corpo senz’anima. Ma può esistere un corpo senz’anima? La percezione di sé e della propria identità si fonda sulla percezione del proprio corpo, come gli studi di neuroscienze non cessano di documentare e argomentare. E quando il corpo viene stuprato, l’anima, la psiche, per difendersi si dissocia, si separa dalla sua corporeità.
“Quando abbassa lo sguardo vede che le sue gambe sono ancora là, e che in mezzo a esse c’è il viso di un altro uomo. Quelle, naturalmente, sono le sue gambe. S. dice a se stessa che quelle sono le sue gambe, ma a dire il vero non le sente. Come se io non ci fossi. Come se non fossi più qui. Sente solo di avere sotto le spalle un tavolo duro che continua a spostarsi verso la finestra”(p.75).
Si tratta del racconto di atrocità purtroppo possibili (in questo caso nel 1992-1993 in Bosnia) nonostante secoli di cultura, evidentemente di cattiva cultura separata dalla capacità di percepire l’Altro, molto più spesso l’Altra come simile a sé, di provare empatia; una cattiva cultura che vede intorno a sé non persone ma oggetti da usare per il denaro, per il potere, per esprimere la propria rabbia, per soddisfare un bisogno fisico.
Le guerre, tutte le guerre si fanno per garantirsi più potere al fine di ottenere il possesso di maggiori fonti di guadagno. Intorno a questo nucleo poi si costruiscono motivazioni ornamentali: l’equilibrio geopolitico, l’ideologia, la difesa dei propri valori, la religione… In realtà il movimento emozionale che dà origine a questo assalto accecato è quasi sempre la paura: il terrore di perdere quello che si ha, o la terribile ansia avida e rabbiosa di volerne di più. È il bisogno oltre soglia di avere, che predomina sulla percezione di essere e di esserci con altri simili. È questa mancanza di percezione globale di sé, mancanza di percezione delle proprie possibilità oltre che delle mancanze, dei propri sentimenti oltre che dei propri muscoli e degli impulsi ormonali a impedire di riconoscere i bisogni degli altri, i sentimenti degli altri che diventano allora oggetti di cui disporre a piacimento.
Questo erano diventate S. e le sue compagne di prigionia, “un pezzo di carne immagazzinato” (p.103), lo erano nella percezione dei soldati, ma anche nella propria percezione. In un primo tempo l’impossibilità di agire la propria volontà fa sentire S. così fragile che cercherà di “Diventare quanto più invisibile è possibile. E infatti, è come se tutte le donne si attenessero istintivamente a questa regola. Camminano curve, guardano davanti a sé e, strette l’una all’altra e silenziose, si fanno piccole.” (p.53). Questa primitiva, infantile reazione non è sufficiente, e allora, per non vivere l’orrore dello stupro della propria persona, si mette in atto, inconsapevolmente, un meccanismo di difesa più potente: si tenta di separare quello che accade al corpo da tutto il resto di sé; questo attutisce per un po’ l’angoscia: tutto questo non sta accadendo a me, non reagisco più, accetto passivamente quello che il susseguirsi dei giorni e delle azioni sempre uguali mi indica come ineluttabile. La paura del rumore dei passi che si avvicinano e della porta che si apre, dei pugni, dei calci e delle ripetute penetrazioni violente viene a poco a poco sostituita da una auto-anestesia. Lentamente il corpo si separa, non è più connesso con l’insieme del sé. Così “S. non prova dolore. Qualcosa dentro di lei si è spezzato.“ (p.76).
Prima, un’altra delle donne prigioniere, V., aveva raccontato che “Quando se ne sono andati è rimasta sdraiata sul letto. Se ne stava lì e le sembrava di morire, sentiva come se il suo corpo, un pezzo dopo l’altro, stesse morendo; proprio così, un pezzo dopo l’altro. Le mani. Le gambe. Il cuore.” (p.67).
Invece “K. Non dice niente, ma trema sempre più forte. A questa donna deve essere successo qualcosa di peggio anche dello stupro, qualcosa che non è possibile esprimere. K. non sa dire che ne sia stato dei suoi bambini.” (p.67).
K. non può, non sa parlare di quello che ha vissuto, e la stessa cosa accade ai soldati: S. racconta di come “non siano in grado di esprimersi normalmente, ma solo a monosillabi, come se avessero dimenticato come si parla. E forse l’hanno proprio dimenticato. Forse è questo ciò che succede durante una guerra, che all’improvviso le parole diventano superflue, perché non possono più esprimere la realtà. La realtà si sottrae alle parole conosciute, e nuove parole, nelle quali stipare questa nuova esperienza, semplicemente non ci sono.” (p.74).
Ci sono esperienze che tolgono la parola, lo sappiamo per esperienze vissute, raccontate e lette, e che ora gli studi delle neuroscienze ci documentano con i risultati delle Tomografie a Emissione di Positroni (PET): l’area di Broca, preposta all’elaborazione del linguaggio, in situazioni di grande stress si disattiva.
Deprivazione della parola, deprivazione dell’interezza del proprio sé. Nelle situazioni di paura, di difficoltà non oltre soglia, le emozioni possono ancora dialogare con le istanze di base che garantiscono la sopravvivenza fisica da una parte e con il pensiero razionale dall’altra: il cervello limbico cioè, si connette con il rettiliano e la neocortex. Ma in presenza di vissuti estremi, come quelli vissuti da S., V., k. e tante altre, il limbico e la neocortex sono sopraffatti dalle istanze del rettiliano che cercano principalmente il modo di sopravvivere fisicamente. A poco a poco quindi si perde la capacità di relazioni empatiche e di solidarietà, si perde la capacità di progettazione intelligente. Terrore e rabbia impotente annichiliscono le funzioni superiori. “Non serve a niente parlare, ciascuna di loro è sola con se stessa, con quell’odio liquefatto che brucia il cervello e dal quale non c’è modo di fuggire.” (p.112).
“S. si ritira in se stessa, sempre di più. Deve esistere un limite oltre al quale niente possa più toccarla, oltre al quale nessuna sensazione, nemmeno la paura della morte, possa più raggiungerla. Deve trovare in se stessa uno spazio interiore, nel quale il suo essere perda coscienza di sé. Qualcosa di simile alla morte che non sia la morte, ma solo una temporanea assenza di sé. Come se lei non si trovasse lì, come se lei non ci fosse…” (p.113).
In questa scissione tra parti di sé S. rimane incinta. Non se ne accorge subito, le mestruazioni, come a molte altre sue compagne, non venivano più dall’ingresso in quel campo, anche se una volta un po’ di sangue c’era stato. Il loro corpo aveva perso il proprio ciclo ormonale mensile, perché la loro vita aveva perso l’orientamento, ma S. concepisce: un feto, non un bambino per lei, ma qualcosa più simile a un tumore, cellule estranee che si moltiplicano e si impossessano di lei. Un’altra penetrazione, questa volta dal di dentro, che cresce inarrestabile contro la sua volontà. E anche questa volta S. cerca la distanza, la separazione da quella parte di sé che sta vivendo di vita propria, non la riguarda, tra qualche mese uscirà fuori e lei se ne libererà per sempre. Ha saputo dissociarsi dal proprio corpo e dai propri sentimenti, si dissocerà anche da questo feto che per lei non potrà essere un bambino.
Un giorno avviene quello che non osavano più sperare: uno scambio di prigionieri; S. e le sue compagne vengono fatte uscire dal campo di prigionia e trasportate in un campo profughi di Zagabria. Continuano il freddo, la paura del non sapere nulla di quello che accadrà domani e la persistente mancanza di percezione della propria identità: profughe senza patria e senza domani. Se si ha un parente in una nazione europea lo si può raggiungere. S. ne ha una a Stoccolma. Arriva lì quando sta per partorire.
In ospedale il suo utero lascia uscir fuori il suo contenuto. Glielo mettono vicino ma lei non lo guarda. “Non desidera toccarlo. Se lo toccasse anche solo una volta, lei pensa, ne diventerebbe responsabile.” (p.8).
“il bambino si volta e S. vede che si è scoperto. Con un solo movimento tira su la copertina gialla e lo ricopre. (…) senza riflettere su quel gesto. Tuttavia è proprio quel movimento che le toglie il sonno. (…) l’ha quasi toccato, e questo assolutamente non doveva farlo. Ha ancora paura di un contatto, di una qualsiasi vicinanza col bambino. Le suscita ancora avversione.” Ma S. lo guarda e la forma del mento, quei capelli scuri gli ricordano qualcosa: vecchie fotografie, lei piccolissima, lei un poco più grande e la sorellina che le sorride e tende le mani verso di lei. Intanto il piccolo ha cominciato a piangere, lei lo prende in braccio, ma il pianto continua, “S. si sbottona la camicia da notte e leva l’asciugamano. Il latte è affluito. Il bambino si attacca alla mammella e si mette a succhiare con forza. S. sente il suo piccolo corpo rilassarsi. Lo stringe forte a sé, mentre le lacrime le scorrono sul viso, sul collo, sul seno.”
Il suo corpo e la sua anima si sono ritrovati, lei si è ritrovata.
[i] Slavenka Drakuliç, (2000) Come se io non ci fossi. Rizzoli. Traduzione dal croato di Maria Rita Leto