Numero 1/2024
fuocoammare
regia di gianfranco rosi
anno 2016
a cura di Luisa Barbato*
Il film di Gianfranco Rosi Fuocoammare è stato premiato con l’Orso d’oro al festival internazionale del cinema di Berlino 2016. Il film si svolge a Lampedusa, la Lampedusa nel cui mare sono morte migliaia di persone che arrivavano dai vari paesi del Mediterraneo alla ricerca di una vita migliore.
Per girare il film Rosi è andato a Lampedusa e, seguendo il suo metodo di totale immersione, vi si è trasferito per più di un anno facendo personale esperienza di cosa vuol dire vivere su un posto così confinato, più vicino all’Africa che all’Italia. Ha avuto modo di conoscere da una parte la vita di chi sull'isola ci abita da sempre, i lampedusani, e dall’altra di chi ci arriva per andare altrove, i migranti.
Il protagonista del film è Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e della tragedia delle migliaia di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Lampedusa non è un'isola come le altre, è al centro di un fenomeno migratorio di portata mondiale che negli ultimi due decenni ha portato più di 400.000 persone a cercare di sbarcare su questa estrema pendice del continente europeo.
Samuele e i lampedusani sono da anni i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi. Ma, nella divisione di umanità che caratterizza l’isola tra abitanti e migranti, la vita dei primi sembra comunque procedere in modo ordinario, come si vede dalle riprese che Rosi dedica alla famiglia di Samuele, alla sua quotidianità, mentre in un’altra parte continuano le operazioni di salvataggio dei barconi, un’emergenza oramai divenuta permanente.
Il film sarebbe dovuto essere un corto e un documentario, ma ben presto è diventato una storia intensa di ben 108 minuti, che Rosi ha dedicato ai migranti e alla complessa, particolare situazione dell’isola: "Il mio pensiero va a tutti coloro che a Lampedusa non sono mai arrivati nel loro viaggio della speranza e alla gente di Lampedusa, che da venti, trenta anni apre il suo cuore a chi arriva"…"non si può cogliere il senso di quella tragedia senza un contatto non solo ravvicinato, ma anche continuativo", ha detto il regista, che ha effettuato anche il montaggio sull'isola per preservare il contatto con la realtà raccontata. "Solo così, tra l'altro, avrei potuto comprendere meglio il sentimento dei lampedusani che da vent'anni assistono al ripetersi di questa tragedia".
Nel film si vede bene come i migranti a Lampedusa non si percepiscano e come siano una sorta di fantasmi di passaggio. Le imbarcazioni per lo più sono intercettate in alto mare. Li vediamo sui barconi, tremanti o febbricitanti, coperti di ustioni chimiche da carburante, remissivi nel seguire le indicazioni degli uomini in tuta e mascherina sopraggiunti in soccorso. Li vediamo ordinati in fila, con un numero in mano accanto al volto per la foto identificativa, avvolti in coperte isotermiche. I visi sono stravolti dal disagio, dalla stanchezza, a volte piangenti, ma sempre con tanta dignità.
In una drammatica sequenza finale Rosi ha scelto di mostrarci i corpi senza vita ammassati nella stiva di un barcone abbandonato in mare aperto, del quale ha seguito e ripreso il salvataggio. Si tratta della terza classe di quei viaggi tra la vita e la morte, dove se non hai abbastanza soldi vieni ammassato nella stiva inquinata e soffocante e dove l’unico destino possibile è la morte.
Sono riprese scioccanti fatte per svegliare le nostre coscienze, per restituire al fenomeno migratorio del nostro tempo tutta la sua drammaticità.
In questa parte del film, che fa più effetto in rapporto alla leggerezza apparente di molte scene precedenti, Rosi sceglie anche di documentare come le imbarcazioni che lasciano la Libia contano oramai di essere intercettate dai mezzi preposti e sono quindi del tutto prive dell’equipaggiamento necessario per raggiungere autonomamente la terra, mettendo così ancora più in pericolo la vita delle persone che vi si affollano. I migranti, che invece sono sopravvissuti, sono fatti sbarcare in un molo laterale del porto vecchio dell’isola, sono portati con un autobus nel Centro di Accoglienza dove sono assistiti e identificati, per poi ripartire verso il continente.
I lampedusani, d’altra parte, hanno una quotidianità semplice che Rosi sceglie di narrare tramite i giochi del dodicenne Samuele. Vediamo Zia Maria che cucina e ascolta canzoni popolari sull'emittente locale Radio Delta; seguiamo Franco nelle sue immersioni a caccia di ricci e patelle. Ad un certo punto, nel variegato panorama dipinto da Rosi, emerge tuttavia una figura di congiunzione tra i due gruppi, quella del medico responsabile della ASL dell’isola, Pietro Bartolo, che cura tanto gli abitanti di Lampedusa quanto i nuovi arrivati in transito, anche se per quest’ultimi spesso può soltanto eseguire autopsie, come dice in una sequenza che il regista ha dichiarato d’aver girato poche settimane prima di presentare pubblicamente il suo film alla 66a Berlinale.
Il legame tra queste due comunità così diverse è costituito dal mare. Il mare è diventato un confine, un luogo denso di oscurità, in cui, pur muniti di moderne tecnologie, non ci si riesce a trovare: le navi che cercano i barconi dei migranti chiedono coordinate nella notte e perlustrano la superficie del mare.
Come in altri suoi film, ad es. in Sacro GRA, nel cinema di Rosi non si fa documentario, nel senso che non si documenta il reale. Piuttosto il regista esprime una visione personale della realtà che ci viene presentata filtrata dal suo sguardo ed è uno sguardo compassionevole, partecipe dei destini drammatici, come quelli dei migranti, o pacati, come quelli degli isolani. Il salto dalla visione meramente documentaristica è costituito dal montaggio. In questo senso si può affermare che il cinema di Rosi è un cinema di montaggio ed è un montaggio creativo, pieno di poesia, di piccoli particolari, di allusioni e di suggestioni. È una specie di danza, si parte dai frammenti che vengono composti in una struttura di immagini che alla fine diventano un racconto.
Potremmo dire che Rosi ci ricorda nel film che la nostra cultura sopra ogni cosa rimuove la morte, ma lui decide di portarla in scena con uno sguardo asciutto e pieno di partecipazione emotiva. Nel film, malgrado la drammaticità del tema narrato, non c’è retorica, non ci sono buoni sentimenti, non ci sono i discorsi dei politici sul tema delle migrazioni. Così facendo e narrando, come per contrappeso, anche della vita dei lampedusani, riesce a scuotere lo spettatore, a costringerlo a fare i conti con una realtà che non bastano le cronache dei telegiornali a restituirci in tutta la sua drammaticità, lo obbliga a considerare la parte di questo fenomeno che non vorremmo né vedere, né conoscere.