Numero 1/2024

Nuove intelligenze e stati di sofferenze urbane

Una ricerca di A.S.P. e S.I.A.R.

Antonella Messina e Loredana Sucato*

Si tratta del momento
in cui le forme si spingono
al di là di loro stesse senza poterne uscire.
(V. Gallese e M.Guerra)

 

Questo articolo nasce da una riflessione sorta nel 2012, all’interno di un laboratorio di ricerca sulla sofferenza urbana, all’interno del Centro Agorà – Centro per la Prevenzione delle Malattie della Povertà e dell’Immigrazione, presente nella città di Catania - in collaborazione in regime di partenariato con la S.I.A.R. – Società Italiana di Analisi Reichiana. Il gruppo di lavoro si è posto come obiettivo la possibilità di porre domande sulle connessioni che intercorrono tra i mutamanti storico sociali, l’essere umano e le istituzioni di cura pubbliche e del terzo settore. Nel fare riferimento all’essere umano il gruppo di lavoro ha scelto di tenere conto delle funzionalità intelligenti messe in atto dagli individui nell’atto di stare nel tempo, nello spazio e nella relazione.

Le riflessioni nascono da quattro anni di confronto con professionisti, del pubblico e del privato, coinvolti in ambiti lavorativi differenti: ci riferiamo ad assistenti sociali, psicologi, urbanisti, teologi.

Per meglio comprendere la natura dello spazio in cui nasce il progetto è importante sapere che il centro Agorà rappresenta già una realtà A.S.P. (Azienda Sanitaria Provinciale) nella quale gli interventi sociali, psicoterapici e clinici tengono conto delle differenze culturali, geografiche, sociali e di genere. In esso si concentrano realtà sanitarie di cura (ginecologia, medicina generale, dermatologia, psichiatria transculturale) e di attività di servizio sociale legate all’accoglienza, all’orientamento lavorativo ed alla tratta delle donne migranti. Le azioni sono prevalentemente riservate alle fasce di povertà ed ai gruppi di migranti provenienti da Europa dell’Est, Africa e zone dell’Asia. All’interno del centro vi è la possibilità di regolarizzare la posizione sanitaria tramite codici di accesso al servizio sanitario. Si tratta di un luogo, istituzionale, attento da anni ai mutamenti sociali (migrazioni, nuove povertà) ed al come questi influiscano sulla salute, intesa già dall’OMS nel 1948 come diritto al raggiungimento di uno stato di benessere fisico, mentale, sociale e non solamente assenza di malattia o infermità. All’interno di questo centro, in connessione anche con i servizi sociali del Dipartimento Salute Mentale e del Dipartimento Materno Infantile, in particolare con i consultori, nascono le riflessioni sulla sofferenza urbana intesa come paradigma per la lettura di un tempo storico attuale in cui vige il “furto del tempo” (Ferri, 2005).

Messina 24Foto di Laura De StrobelDurante le riunioni, gli operatori hanno espresso il loro disagio esistenziale e lavorativo riportando casi di utenti, seguiti all’interno dei loro servizi, e che, a parer loro, necessitavano di una risposta non standardizzata dai protocolli di intervento e prevenzione vigenti: che cosa rispondere ai genitori che ritengono di non essere amati dai figli poiché non possono acquistare per costoro l’ultimo modello di telefonino? Che cosa dire a chi ritiene di essere povero e depresso poiché non possiede automobili di lusso? Che cosa dire ancora a chi sviluppa relazioni solo sui social senza incontrare l’altro?

Davanti a questi interrogativi, che spesso raccontano spaesamenti di operatori e utenti, il gruppo di lavoro ha sentito l’esigenza di ricercare modi per impostare un modello, di cura e prevenzione, che tenga conto dell’effetto di un campo di forze dinamiche storico-sociali, in continua trasformazione; ciò ha comportato la ricerca di nuovi paradigmi di ascolto e la necessità di nuovi modelli di cooperazione tra le differenti realtà di cura nel sociale; in maniera specifica è stata percepita la necessità di interconnettere il centro Agorà con gli effetti di una rete di azione (action-net) all’interno della quale segmenti qualificati del settore pubblico e privato presenti nel territorio, possano dare vita ad un modello di servizi flessibili e complessi, in grado di cooperare tra loro. Il progetto in atto ha trovato un intenso punto di scambio in una giornata di formazione rivolta ad assistenti sociali A.S.P. della provincia di Catania con il dott. Genovino Ferri, Presidente della S.I.A.R.

 
Gli snodi tematici del progetto

L’andare di corsa, il non avere tempo, il rincorrere il tempo, sono stati individuati come fattori storico sociali incarnati, messi in atto da operatori della salute ed utenti, sia sui rispettivi posti di lavoro sia all’interno delle proprie vite personali. Il non avere tempo si è man mano presentato come una condizione, e spesso un disagio, così tanto diffuso da potere essere inserito in un disturbo sociale, connaturato nell’attuale natura delle cose, presente in modo trasversale all’interno di età, fasce sociali e generi. L’ipotesi è che la percezione quotidiana di non avere tempo riguardi tutti e tutte e scaturisca dalla necessità di stare al passo con lo sviluppo ipertrofico e battente della società contemporanea.

Data questa realtà, il gruppo si è interrogato sulla modalità di interazione tra la condizione del non avere tempo dell’operatore e la condizione del non avere tempo dell’utente-paziente: ovvero come può l’operatore vedere nell’altro il disagio se tale disagio è già presente in lui o in lei? A ciò si aggiunge, sul piano dell’organizzazione dei servizi, l’interrogativo sul tipo di servizio a cui possano rivolgersi gli utenti che, stremati o affaticati da una vita di corsa e senza tempo, si rendessero conto di essere prossimi ad un’esplosiva insoddisfazione dalle azioni dirompenti. Lungo le riflessioni, siamo giunti alla considerazione che, al momento, per costoro (o per tutti noi) si riserva un tempo di attesa durante il quale l’insoddisfazione della mancanza di tempo deve divenire disagio ed organizzazione psichica disfunzionale all’individuo prima di essere presa in carico dai servizi che avranno il compito di definire e connotare quel disagio secondo forme di protocollo operativo o codice DSM.

Di mese in mese, di riunione in riunione, la questione del tempo è divenuta una riflessione legata alla dis-incarnazione di un’unità corpo-mente che rincorre tempo senza avere tempo, che rinnega lo spazio del tempo presente per stare nella progettazione di un futuro, e che si ritrova al contempo a comunicare con una moltitudine di persone e a permanere nel silenzio delle relazioni. La chiamiamo dis-incarnazione perché ciò che diviene invisibile, o meglio invisibile perché non visto, e solo per questo illusoriamente immortale, è il corpo; un corpo che dimentica la propria carnalità, andando oltre la stanchezza, oltre il possibile, oltre lo spazio che occupa, oltre la relazione con cui interagisce.

Ciò accade in coerenza con il fatto che con app e tecnologie dell’ubiquità che ci consentono di raggiungere in pochi minuti persone in parti svariate del mondo, siamo entrati nell'era della trasparenza della carne, in una nuova forma di comunità virtuale incorporea, istantanea e onnipresente; i nostri smartphone rendono noi nodi eterei di un ipertesto globale, mentre l'essere costantemente connessi riduce il sentimento della solitudine solo perché tutti diventiamo sempre e ovunque raggiungibili. Ascoltando chi parla di virtuale, abbiamo avuto la sensazione che le connessioni diventano fili, legami (in)carnali da cui dipendere e in cui essere incastonati: un uomo connesso non è un uomo indipendente (Chul Han, 2016) prova ne sono le nuove dipendenze da internet e le azioni reali (suicidi, vendette, innamoramenti) che seguono ad azioni virtuali sui social. La società in cui viviamo divide la realtà in due spazi e non sa ancora bene come integrarli tra loro: esiste lo spazio privato intimo e lo spazio privato che potremmo definire invaso o svelato all’ignoto della rete: si pensi alla diffusione di scene intime o scene di bullismo riprese dai telefonini, alla tendenza a registrare colloqui di lavoro perché non si sa mai, al raccontare in tempo reale le proprie emozioni sui social.

L’arte esprime molto bene tutto ciò (Jankélévitch, 2012), presenta volti sfigurati, problematizza e non risolve le questioni invitandoci a riflettere sul fatto che l’uomo sembra aver dimenticato l’assunzione di responsabilità delle sue azioni rimandando la responsabilità ad una comunità virtuale dall’astratto funzionamento. Ne segue anche un mutamento etico: come nella rete, ciò che è possibile è lecito e, dal punto di vista gnoseologico, tutto è vero e tutto è falso, o meglio, ogni cosa è vera come tutte le altre e inoltre è vera ora ma può non esserlo domani. Ma allora come si fa ad esserci per e con se tutto ciò che ci sta intorno sembra dissolversi e non avere confini? Se va bene tutto e il contrario di tutto? Ad un’attenta analisi, questo riguarda sia l’operatore di cura quanto l’Istituzione che voglia dare vita ad un sistema di cura opportuno ed adeguato ai contemporanei mutamenti. Ipotizziamo che la sfida dei servizi di cura sarà legata al discernere tra la flessibilità del pensiero, la capacità di adattamento alle situazioni ed ai disagi contemporanei creando modi e luoghi di cura adatti ai tempi, e l’improvvisazione, il caos, la mancanza di punti da cui guardare le nuove richieste di aiuto degli utenti.

Nel leggere le intelligenze insite in questi fenomeni di spaesamento (Jankélévitch, 2011) ci chiediamo se sia possibile immaginare che la sofferenza nell’uomo del XXI secolo sia determinata proprio da un Sé corporeo, presente in un tempo e in uno spazio, e che fa fatica a svolgere la sua primaria funzione di essere senziente, proprio nel tentativo di non essere un semplice Korper ma un Leib, ovvero un organismo con un proprio movimento dall’interno.

Intendiamo dire che se guardiamo la questione in termini più propri alla ricerca di senso di un divenire, potremmo anche leggere e suppore l’intelligenza di questa liquefazione sociale: in passato il corpo, per proteggersi dal proprio sentire doloroso aveva indossato una corazza che si era irrigidita sino a limitare il corpo stesso; oggi il corpo, per essere senziente, ha necessità di scivolare via, come un liquido, come un gas, proprio da quella corazza.

Proviamo ad invertire i termini della questione: perché il corpo non avrebbe dovuto ritirarsi in se stesso, sino alla liquefazione o gassificazione, se esso è nelle mani di progettualità politica lontana dal sentire la vita? Le istituzioni organizzano e programmano sistemi di salute dove viene a mancare la capacità di guardare all’obiettivo finale dello stare bene della persona. La vita umana sembra essere nelle mani della scienza e del mercato: sterilità, invecchiamento, menopausa, disabilità, male d vivere, sono espropriate dalla loro condizione di umano divenire e sono viste come condizioni di una caduta, a minore performance, da riparare per poi rimettere l’individuo sul mercato della vita (Chul Han, 2016).

Le ricerche fin qui condotte sulla sofferenza urbana, ci spingono ad ipotizzare che se nell’uomo esiste un’intelligenza incarnata, essa concorre alla risoluzione delle problematiche e dei bisogni espressi dalle persone. Sembra però che nel mondo contemporaneo storico, osservato solo nell’ottica del presente, essa prende le forme o sia stata sostituita da un’intelligenza astratta che proprio perché astratta non riesce a trovare una collocazione spazio-temporale delle questioni che albergano nella propria carne, nel proprio cuore, nella propria mente: nel proprio Sé.

Come afferma Fernando Pessoa “una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima”. (Pessoa, 1992, pag.142).


 

Bibliografia
  • Chul Han, B. (2016), Psicopolitica. Edizioni Nottetempo.
  • Ferri, G. (2005), Chi mi ha rubato le lancette? in Liberazione, 6 Marzo.
  • Gallese, V., Guerra, M. (2015), Lo schermo empatico. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Jankélévitch, V., Berlowitz, B. (2012), Da qualche parte nell’incompiuto. Torino: Piccola Biblioteca Einaudi.
  • Jankélévitch, V. (2011), Il non so che e il quasi niente. Torino: Piccola Biblioteca Einaudi.
  • Pessoa, F.(1982), Il Libro dell’inquietudine. Milano: Mondadori, 1992.
* Responsabile U.O. Servizio Sociale Professionale ASP di Catania-Coordinatore Agorà - Centro per la Prevenzione per le malattie della povertà e dell’immigrazione - ASP,
Psicologa Servizio Consulenza Giovani Wilhelm Reich, sede di Catania; referente per la S.I.A.R. per il protocollo di intesa con A.S.P.3.
 
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