Numero 1/2024

dimentica il mio nome

di zerocalcare
edizioni bao publishing 2014

 a cura di Patrick Giovanetti*

 

Da molti anni sento parlare di questo fantomatico autore di fumetti dal nome così originale quanto stravagante Zero Calcare ed ora, dopo aver letto per la prima volta uno dei suoi acclamati fumetti, arrivano alcuni ricordi.

Ricordo quando, calpestando con i miei anfibi un po' logori i pavimenti dei meandri umidi e polverosi dei tunnel centenari del Forte Prenestino, in occasione del CRACK! (Festival Internazionale di Fumetto e Arte Disegnata e Stampata), sentivo i miei amici più esperti del settore parlare con entusiasmo dei fumetti brillanti ed ironici ma anche impegnati, profondi e velatamente malinconici di questo giovane e promettente scrittore romano.

Ricordo come presi in mano una delle sue prime opere (non ricordo assolutamente quale!) esposte in questa rassegna e come fui immediatamente colpito dallo stile demenziale dei suoi disegni e dall'umorismo pungente e sprezzante, tipicamente romano, che caratterizzava le battute e i dialoghi dei personaggi, un po' coatti, un po' infantili, un po' filosofi ma soprattutto spiccatamente e fallacemente umani, che prendevano vita e popolavano i suoi fumetti.

Ricordo la piacevolezza con cui sfogliai curiosamente quelle pagine, ma non ricordo minimamente perché, pur essendo gradevolmente stimolato, posai quel fumetto lì dove l'avevo trovato e lasciai cadere quella stuzzicante stimolazione nell'oblio.

Ma a quanto pare Zerocalcare ed io eravamo destinati ad incontrarci di nuovo, in un luogo questa volta inaspettato, non ad un festival del fumetto, non in una libreria, ma nei corridoi puliti ed arieggiati dello studio dove lavoro.

È in questo spazio che una mia cara collega, con mia sorpresa, si avvicina discretamente a me con questo tomo apparentemente pesante e mi chiede se io avessi mai sentito parlare di questo scrittore e se fossi interessato a recensire una delle sue ultime e più acclamate opere: "Dimentica il mio nome".

Ed eccomi qui a provarci.

Naturalmente questo mio scritto non ha la pretesa di essere una vera e propria recensione, non sono un critico letterario, né un esperto di fumetti; vorrei semplicemente utilizzare questo spazio per riportare alcuni spunti riflessivi e associazioni emersi durante la lettura di quest'opera.

dimentica il mio nomeGià dalla copertina di questo volume, dove il protagonista è ritratto terrorizzato da due fantasmi famelici che sembrano minacciarlo, il tema della paura bussa prepotentemente.

Le paure sono tante e diverse ma hanno una radice comune, la morte. La morte dei propri cari che segna un definitivo, irreparabile e struggente abbandono e poi la propria morte, l'unica esperienza umana che non trova sensazioni per essere prefigurata e parole per essere descritta, un momento di passaggio di cui non si conosce la meta di approdo.

L'autore va dritto al sodo e ci rivela fin da subito che l'opera poggia esattamente sulla perdita di una persona cara al protagonista, la sua dolce, gentile e premurosa nonna (naturalmente il riferimento autobiografico appare evidente).

Proprio da questo evento l'esile ed intimorito Zerocalcare si ritrova a ripercorrere alcuni dei momenti più significativi della sua vita, soprattutto i primissimi tempi, trascorsi con la sua amata nonnina. E allora mi chiedo se questo non sia il primo tentativo di elaborare (o negare) la morte e la separazione, un tentativo destinato a fallire quello di negarla aggrappandosi in maniera vana a tutti i ricordi di una relazione ormai conclusasi definitivamente.

Le numerose teorie psicologiche sul lutto e sulle diverse fasi di elaborazione di esso sembrano confermarcelo affermando che tale elaborazione inizia, quasi paradossalmente, dal rifiuto/negazione di essa. Una fantasia certo, ma una fantasia che ha tutte le giustificazioni per essere partorita. Chi di noi non ha paura della morte che sta lì a ricordarci i limiti della nostra vita, del nostro tempo, del nostro corpo e soprattutto della nostra coscienza? È così che un infantile e recondito sentimento di onnipotenza, che ci consola ma soprattutto ci illude, viene falciato violentemente.

C'è dello smarrimento, della confusione, una foschia che permette agli occhi di non percepire uno scenario troppo inquietante, troppo doloroso e profondamente insostenibile. Ma basta un raggio di sole o una folata di vento per diradare tale foschia e per sbatterci in faccia la dura realtà.

Allora gli occhi tornano a vedere, non chiaramente certo; le rifrazioni prodotte dalle lacrime adagiate sulle nostre orbite distorcono ancora la realtà, ma il dolore ormai si fa strada imperterrito e inesorabile. Il diaframma si tende in uno spasmo indicibile, il torace si ripiega su se stesso come a proteggere il cuore che batte all'impazzata e che potrebbe esplodere da un momento all'altro, le gambe tremano, le viscere si contorcono, i masseteri si contraggono spasmodicamente e il collo cade sotto il peso della testa in cui risuona l'eco della disperazione.

Una disperazione che spinge il nostro protagonista a rimpiangere, inizialmente, tutte le occasioni avute nella sua vita per crescere ed evolvere ma che per indolenza e timore ha fatto finta di non vedere. Poi confrontandosi col dolore della propria madre si chiede come sia possibile consolare un genitore e cioè la persona da cui ci aspettiamo sistematicamente di essere consolati. C'è dell'autocommiserazione, c'è dell'impotenza, c'è del senso di colpa.

Ma poi la morte ci ricorda inesorabilmente di essere ancora vivi, forse più vivi di quando l'ombra di essa non incombe su di noi e ciò, per chi ha la fortuna di avere le energie adeguate, ci spinge a reagire così come il nostro organismo inizia un processo di guarigione quando viene ferito.

E così lo stesso Zerocalcare riparte proprio da questo lutto per andare a raccogliere i pezzi sparsi della storia della sua famiglia, di sua nonna, di sua madre e dunque della sua intraprendendo intuitivamente un vero e proprio percorso di analisi. E' questo il primo passo del protagonista verso un processo di responsabilizzazione ed autonomia.

In termini reichiani si potrebbe dire che il protagonista tenta il passaggio da un primo campo materno caldo, accogliente, protettivo ma anche poco tonificante e strutturante (vedi l'orsacchiotto gigante che lo tiene stretto a sé e che poi si rivela essere un mostro) per entrare in un secondo campo che lo costringe a strutturarsi e ad affrontare con coraggio la vita che gli si dispiega davanti, attimo dopo attimo, in un andirivieni tra passato e futuro.

Allora Zerocalcare scopre man mano la particolare unicità della storia della sua famiglia, tra colpi di scena inaspettati e misteri svelati e inizia a comprendere come non siano i nomi bensì le storie e dunque le azioni a dirci chi siamo veramente e a svelarci senza mezze misure la nostra vera identità.

Esatto l’identità (dal lat. tardo identĭtas-atis, der. di idem «medesimo», senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, dalle altre) questo strano concetto che sembra tanto scontato quanto ineffabile. Io credo che la nostra identità passi per le nostre relazioni, per gli occhi delle persone con le quali siamo cresciute e con le quali ci confrontiamo quotidianamente e nei quali ci rispecchiamo, è una tautologia in perenne mutamento, un paradosso, mai una certezza se non quando questi occhi, questi specchi, non vengono meno e ci costringono inesorabilmente a guardarci dentro attraverso il rispecchiamento con il nostro puro e semplice sentire e con gli occhi della nostra mente e scoprire così, forse per la prima volta, chi siamo veramente.

Morte ed identità, non avevo mai legato questi due temi e soprattutto non avrei mai immaginato di associarli mentre delle risate sonore e piene, dettate dall'esilarante ironia di Zerocalcare, facevano piacevolmente vibrare tutto il mio corpo. Grazie ZC.

Buona lettura!

 


 * Psicologo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

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