Numero 1/2019

Ai confini del corpo

Franco Rella*

Trascrizione[i] della presentazione tenuta dall’autore a Rovereto in occasione della prima riedizione del suo libro “Ai confini del corpo”, Garzanti 2012.

Trascrizione non rivista, ma autorizzata dall’autore.

 

Questo lavoro è nato a ridosso, quasi in continuità diretta, con il mio libro precedente; è stato finito nel 1999, pubblicato nel 2000 e ripubblicato quest’anno (2012) con una nuova introduzione; il resto è sostanzialmente identico.

Il libro immediatamente precedente (Negli occhi di Vincent. L'io nello specchio del mondo) è uscito nel 1998, ma è stato terminato nel 1997 e proprio nella primavera dello stesso anno ho iniziato a scrivere il libro di cui ci occupiamo oggi.

Il libro precedente parlava di un'altra zona impervia del pensiero, cioè affrontava il problema dell’Io, del soggetto. La filosofia ha sempre considerato il soggetto, l’Io, come una funzione del pensiero (famoso è il cogito ergo sum di Cartesio) cioè l’essere legato ad una funzione del pensiero. La filosofia di Kant stabilisce addirittura una separazione netta tra l’Io del pensiero e un Io che è un oggetto di studio che ora interessa la psicologia, e che allora investiva altri saperi.

Il tema di questo libro, la mia preoccupazione, è stato infatti l’esperienza dell’Io, del faccia a faccia del soggetto con se stesso.

Ricordo che ad Aprile 1997 ero a Gerona, a circa 100 Km. da Barcellona, nella casa di Isacco il cieco, un cabalista ebreo del 1200 e quasi casualmente ho iniziato a scrivere questo libro.

Solitamente i miei libri nascevano da una riflessione prolungata, cui seguiva una stesura immediata, rapida, della durata di un mese, un mese e mezzo o anche meno.

Questo libro invece è nato e cresciuto nel giro di due anni, ed è come se mi accompagnasse costantemente. Si tratta di una riflessione su uno dei temi più impervi della storia, non dico della storia del pensiero, perché il corpo è stato di fatto espulso dal pensiero, bandito alla filosofia.

La filosofia nasce in effetti con il Fedone di Platone e cioè con la messa a morte del corpo, anzi la filosofia è l’arte di far morire il corpo. Il corpo, dice Platone, è opaco, terroso e in qualche modo ci induce a delle conoscenze svianti che ci inducono all’errore. Questa cosa si ripete ad ogni svolta della filosofia.

Cartesio, all’inizio del ‘600, dirà che tutti gli errori nascono dalla nostra memoria del corpo. Da bambini non sapevamo ancora distinguere, separare la mente dai sensi e attribuivamo più realtà ad un oggetto solido che ad un teorema geometrico di matematica, mentre, per Cartesio, l’oggetto solido è irrilevante e ciò che conta è l’astrazione. Non solo, ma il corpo diventava un oggetto. Per Cartesio il corpo era un automa, qualcosa che doveva essere studiato come tale, totalmente svincolato dallo spirito.

L’idea del corpo è via via rimossa da tutta la storia del pensiero e tale rigetto si ripete ad ogni svolta della storia della filosofia. Per Hegel, l’altro grande filosofo della modernità all’inizio dell’'800, il mondo si popola di immagini perverse, che spariscono quando sono comprese nella generalità del concetto, mentre il qui e ora del corpo e della realtà non hanno nessuna rilevanza conoscitiva.

Nel corso del secolo ci sarà una grande rivoluzione nel pensiero. Nietzsche e Freud riabiliteranno, infatti, interamente la corporeità, ma essa viene ancora recepita con difficoltà. Basti pensare che i due più grandi filosofi del ‘900, Wittgensteine Heidegger, mettono il corpo completamente fuori gioco.

Heidegger, accusato di aver dedicato in Essere e tempo (un libro di otto-novecento pagine) solo otto righe al corpo, afferma io non ne sapevo né potevo dirne di più e chiede dove comincia e dove finisce il corpo.

Wittgenstein,nelle sue varie osservazioni come anche nelle annotazioni aforistiche, addirittura lo espelle, non lo nomina nemmeno, se non in modo laterale e negativo; il corpo è del tutto espulso dal suo pensiero. Del resto anche grandissimi saggisti come Benjamin, autore che io amo moltissimo, nel suo libro sui passaggi, Parigi nel XIX secolo, non cita l’autore del libro che per primo lo ha ispirato: Il paesano di Parigi di Louis Aragon, dentro al quale c’è un inno a Nana di Zola. Nana è una figura fondamentale del recupero della corporeità, ma Benjamin non la cita assolutamente.

Il corpo è stato quindi completamente espulso dalla riflessione del pensiero ed è stato fino ad un certo punto messo fuori luogo anche nel campo dell’arte e della letteratura.

Uno dei capitoli di questo libro è dedicato al fatto che il corpo è stato, per così dire, cancellato anche nella pittura. Secondo Savonarola la Venere di Botticelli non è nuda, essa infatti non presenta alcuna caratteristica sessuale secondaria (peluria, ecc.) che renda questa figura sessuata come direbbero giustamente le femministe. Si tratta di una figura senza sesso, un corpo senza corpo. Il corpo emerge lentamente nell’'800 attraverso le narrazioni prima di Balzac poi di Zola attraverso la grande figura di Nana. La scena iniziale di questo libro presenta Nana che recita in un vaudeville, che alza le braccia e scopre la peluria sotto le ascelle. La platea va in delirio. Questa figura si precisa a poco a poco fino a diventare quasi una specie di profezia di quella che sarà la Nuda Veritas di Klimt in cui c’è una vera nudità.

C’è comunque un altro modo per cancellare la corporeità così recuperata, quella di renderla ipertrofica. In questo libro, ad esempio, si parla di una installazione di Niki de Saint Phalle: un immenso edificio a Stoccolma in cui la gente entra attraverso la vagina, le gambe spalancate di questa donna. Tale nudità cessa di essere una nudità allo stesso modo di quella di Abramovic o di quella delle ballerine o delle veline di Striscia la notizia, perché la nudità, in tal caso, diventa un vestito di scena. Allo stesso modo il corpo del nuotatore o del boxer non è un corpo svestito ma un corpo che ha una sua divisa: corpi sopra che non sono nudità, corporeità, ma anzi una sua ulteriore cancellazione.

foto RellaQuesto libro riprende l’aspetto di questa corporeità negata, della nostra esperienza della corporeità: sappiamo che esiste un corpo cibernetico, un corpo biologico, il corpo delle biotecnologie. Non sono però questi gli aspetti che a me interessano, quanto invece l’esperienza che ciascuno ha del corpo, l’esperienza che io ho del mio corpo, della malattia, della sofferenza, della morte, dell’eros, dell’amore. Per questo qui in questo libro parlo in prima persona. Se prendete un libro di filosofia troverete sempre “noi diciamo”, l’uso della prima persona plurale, che è un soggetto generico, un soggetto dell’Accademia; è rarissimo che in un saggio si parli in prima persona. Questo è un libro non solo in prima persona ma, in alcuni passi, ci si appella ad una seconda persona: tu senti, tu sai, tu dici, tu hai provato ecc. In questo modo la scrittura stessa investe a fondo la soggettività mia e del lettore, e quindi non è una scrittura raffreddata, distinta, oggettiva, ma una scrittura che si mette a rischio come diceva Baudelaire nella poesia che apre I fiori del male che termina appunto con l’appello: “tu ipocrita lettore - mio simile – mio fratello”.

Chiamo, cioè, il lettore ad una correità, io sono qui e faccio questa esperienza e chiamo te a specchiarti in questa esperienza e a confrontarti con me.

Vi ho già detto che questo libro affronta alcuni nodi come la controversa figura di Nana, l’emergere del corpo nel corso dell’'800. Si tratta di un’esplosione: pochi anni prima del comparire della figura di Nana e della figura della Nuda Veritas, Courbet aveva dipinto il quadro di una figura femminile, L’origine del mondo, di un corpo di donna di cui è esibito solo il sesso. Questo dipinto, commissionato da uno sceicco, è finito allo psicoanalista Lacan che lo teneva in una cassaforte chiusa con davanti delle tendine di velluto rosso; questo per dire quanto questa corporeità fosse sacralizzata e nello stesso tempo negata.

Il libro considera, affronta anche il rapporto fortissimo con la corporeità nel misticismo, soprattutto nelle grandi mistiche femministe come Ildegarda di Bingen, la quale parla addirittura, per le cose più profonde, del sapore della morte, di un sapore di qualche cosa che si vive fisicamente.

Attraversando alcune esperienze della pittura, il libro si struttura in alcuni strati, in alcuni percorsi.

Mentre lo scrivevo andavo avanti progressivamente e, rileggendolo ora, mi sono reso conto che ci sono tre piani: il piano di un’esperienza diretta in cui parlo in prima persona con la chiamata in correità, corresponsabilità e complicità del lettore; poi c’è un piano più saggistico, mi riferisco a Bataille, al misticismo, a Nana, a quei nodi e nuclei in cui la corporeità emerge anche nella cultura; c’è poi una terza strada di alcuni frammenti, segmenti narrativi che si costruiscono in certe esperienze estreme della corporeità; esse vengono affidate a delle narrazioni come se il linguaggio argomentativo, il linguaggio filosofico fosse di fatto incapace di giungere fino a quel punto. Il tema del guardare e l’essere guardati, il tema del mistero del corpo e della sua penetrazione sono affrontati attraverso frammenti narrativi che costituiscono il terzo livello di questo libro. Questi si compongono via via e costruiscono un abbozzo di storia. Anche se è una storia totalmente al maschile. La donna in essi è un oggetto finché questo rapporto non si rovescia, la donna acquista un nome e a quel punto la devo abbandonare perché non posso pensarmi nella testa di una donna e quindi, per rispetto, la storia si sospende.

C’è poi una parte finale, un quarto livello, che per me è diventato un livello fondamentale. Si tratta della riflessione sul tipo di linguaggio da usare per parlare di certi argomenti perché per essi non esiste un linguaggio stabilito.

Abbiamo visto che la filosofia si è tenuta sempre lontana da questa tematica e certamente non possiamo parlare di questi argomenti sempre letterariamente. È il problema che corre lungo tutto il libro e che ha accompagnato tutta la mia scrittura da quando ho iniziato tale attività.

Il problema di fondo l’aveva capito Freud molto prima di me. In una lettera del 1892 scrive a Breuer, grande psichiatra, “io non so come si possa parlare semplicemente, piattamente di qualche cosa di così corporeo come la nostra teoria dell’isteria che è infettata dalla corporeità come lo è la nostra teoria”. Alla fine, dirà, bisogna ricorrere ad una Bildersprache, un linguaggio di immagini, di figure. Questo è un problema che Freud ha colto e non ha risolto e che si presenta nella storia del pensiero del ‘900: la tematizzazione di quella che viene chiamata una scrittura saggistica, che non è più una scrittura argomentativa classica, ma è una scrittura che procede per approssimazioni verso il suo oggetto. L’esempio più grande di questa scrittura sono i Saggi di Montaigne in cui egli comincia a parlare di qualche cosa e procede fino in un movimento che si avvicina e talvolta si allontana dal suo oggetto, afferrando in questo movimento pezzi di realtà sempre più cospicui, sempre più importanti.

Questo aspetto, che emerge nella terza parte del libro, è il tema della scrittura saggistica e cioè di come sia necessario talvolta destrutturare un linguaggio, a cui siamo abituati, per arrivare più profondamente al cuore delle cose stesse.

I percorsi a più strati di questo libro non costituiscono una complicazione, ma si combinano come i movimenti di una persona che in certi momenti si trova più vicina al proprio corpo, al corpo altrui attraverso l’eros, o attraverso la sofferenza. Allo stesso modo una persona si trova più prossima alle grandi immagini che affrontano questo problema nella letteratura, nell’arte per poi farle riflettere su di sé. Da questo punto di vista credo che questo libro resti uno snodo importante per me, proprio perché è un libro che si espone completamente, che si mette a rischio nel rapporto del soggetto con le cose, con qualsiasi cosa. Il corpo dunque: uno degli argomenti più scottanti, più incandescenti; è difficile trovare qualche cosa che si esponga così direttamente sulla frontiera della scrittura, mettendosi completamente in gioco su questo confine.

Un’ultima cosa: una delle illusioni o pretese che ho è che i miei libri abbiano anche una sorta di esito politico. Io sono stato politicamente impegnato molti anni fa, dalla fine degli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta. Ad un certo punto mi sono disimpegnato dalla politica e ho capito che avrei fatto molto meglio politica attraverso i miei libri. In essi non parlo di politica, di partiti. Si potrebbe farlo parlando dell’umiliazione del corpo nella tortura o nella carcerazione o nell’ospedalizzazione. Credo però che i libri abbiano un compito di sconvolgere e riqualificare il linguaggio che noi parliamo.

Mallarmé sosteneva che è necessario “dare una parola più pura alla tribù”. Ciò non significa una parola depurata ma una parola più precisa per parlare di qualche cosa che ci è oscuro, che non riusciamo a pronunciare, per rompere la crosta terribile delle frasi fatte, dei luoghi comuni a cui troppo spesso affidiamo la nostra esistenza. Abbiamo bisogno di certezze ma le frasi fatte, i luoghi comuni, secondo Flaubert, erano il male assoluto.

Kundera dice che la più grande scoperta del diciannovesimo secolo non è la filosofia di Hegel o la tecnica, ma è la scoperta di Flaubert della malvagità del luogo comune, della necessità di spezzare il luogo comune. Da questo punto di vista mi illudo che questo libro, questi libri permettano di rompere qualche cosa nel nostro linguaggio e permettano di pensare altrimenti. Da questo punto di vista vi è una tale continuità nel mio percorso che uno dei miei primi libri giocava proprio su questo termine l’Andersdenken, il pensare altrimenti che torna come preoccupazione fondamentale qui e anche nel libro che seguirà a questo e che spero di presentare l’anno prossimo. Si tratta proprio di questo pensare in modo diverso le cose della nostra esistenza, della nostra vita, sia le cose che ci sono più vicine come la corporeità, sia quelle più vicine ma nello stesso tempo più remote non potendole avvicinare con un linguaggio che le definisca dall’interno, in profondità, nella nostra esperienza, sia anche le cose che in qualche modo possono essere più distanti.

 


[i] Trascrizione a cura di Teresa Anzelini

* Filosofo, critico d’arte e scrittore, già docente ordinario di Estetica presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

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