regia di matt ross
u.s.a. anno 2016
Captain Fantastic racconta la storia della famiglia Cash, cioè di Ben (Viggo Mortensen) e della moglie Leslie (Trin Miller), che hanno scelto di crescere i loro sei figli lontano dalla città e dalla società, nel cuore di una foresta del Nord America.
Sotto la guida costante del padre, i ragazzi, tra i cinque e i diciassette anni, passano le giornate allenandosi fisicamente e intellettualmente: cacciano per procurarsi il cibo, studiano le scienze e le lingue straniere, si confrontano in democratici dibattiti sui capolavori della letteratura e sulle conquiste della storia.
Il suicidio della madre, da tempo malata, li costringe a intraprendere un viaggio nel mondo sconosciuto della cosiddetta normalità: viaggio che farà emergere dissidi e sofferenze e obbligherà Ben a mettere in discussione la sua idea educativa.
Così, nel viaggio per partecipare al funerale della donna, padre e figli scontano il disadattamento sociale, la difficoltà di interagire con il mondo comune e la difficoltà di comunicazione con la normalità.
L’attore Matt Ross, alla sua seconda regia, scrive e dirige un film intelligente ed emozionante, pluripremiato sia al Sundance che a Cannes (premio per la regia nella sezione Un Certain Regard). Sotto la facciata ironica, tipica della commedia di buona qualità, tocca temi contemporanei e affatto scontati.
Ma il grande pregio di Captain Fantastic è il mettere al centro il tema dell’educazione, che costituisce il vero protagonista del film. La domanda che ci si pone è se sia possibile un’educazione dei bambini e dei ragazzi che ne rispetti la libertà e l’essenza più profonda, senza cadere nelle utopie di retaggio new-age o hippy e per questo mettendo anche in luce le difficoltà oggettive della sua messa in pratica.
In questo, il capofamiglia Ben incarna perfettamente l’ambiguità del personaggio del padre, compagno e dittatore che ha cresciuto la sua prole con l’obiettivo di ricreare, almeno in piccolo, una sorta di perfetta Repubblica platonica, un’utopia naturale dove i suoi ragazzi possano crescere come dei veri e propri geni incontaminati.
L’obiettivo del padre non si può certo definire fallito: progressisti, anti-capitalisti e geniali, abituati a festeggiare il Noam Chomsky Day e non il Natale, interessati a creare dibattiti su Lolita o su I Fratelli Karamazov, i suoi ragazzi (attori giovanissimi, ma già bravissimi) sono esseri unici, come i loro assurdi nomi inventati vorrebbero enfatizzare, frutto di un progetto genitoriale ideologico e utopistico (o di un esperimento antropologico oltre ogni limite).
La base di un percorso fisico, ma soprattutto spirituale stabilisce una domanda che pervade il film intero: qual è il ruolo del genitore nell’America contemporanea? E ancora: è possibile ipotizzare alternative di vita allo spettro del consumismo destinato a fagocitare le nuove generazioni?
Captain Fantastic produce domande, risposte e sottolineature mescolando dramma e commedia con ritmi distesi e una scrittura che ammorbidisce la ruvidezza della tragedia con cadenze ritmiche da sottile commedia. Dramedy è la parola coniata per indicare questa narrativa che vorrebbe stemperare con il sorriso una lacrima appena provocata.
Per la cultura reichiana questo film è quanto mai attuale. Willhelm Reich pose infatti il tema della prevenzione, e quindi anche dell’educazione dei bambini, al centro della sua riflessione umanistica e scientifica. Solo educando i futuri adulti alla libertà, all’espressione anche della sessualità, al rispetto di sé e dell’ambiente circostante, si possono avere individui sani, non corazzati, in armonia con il mondo, che esprimono creativamente la propria esistenza. In qualche modo il film ripropone, forse anche ingenuamente, questa utopia, ossia la possibilità di educare persone libere, non nevrotiche, così come aveva fatto Reich sessanta anni fa.
Tuttavia, mentre Reich viveva in una società bigotta e repressiva, il modello imperante con cui i ragazzi moderni si confrontano è una società consumista e iper-tecnologica, in cui l’assenza di comunicazione emotiva e l’ignoranza fanno da padroni. Se si è fuori da questo schema imperante, sembra suggerire il film, si è nell’emarginazione e nella solitudine, pur se si tratta di una solitudine colta e piena di contenuti, dove l’unico legame sociale che regge, paradossalmente, è quello della famiglia tradizionale. Come dire che la famiglia tradizionale, anche se espressione di un modello sociale alternativo, è meglio che l’assenza di riferimenti sia culturali sia ideologici della società attuale.
C’è una soluzione possibile a questi dilemmi? Per Reich la soluzione è nel percorso di crescita personale e nell’impegno sociale, nel cercare di mantenere viva la propria capacità di fluire energeticamente, di sciogliere i propri blocchi fisici ed emozionali e di rimanere così in contatto con gli altri esseri umani e con la natura che ci circonda. Il film, più umilmente, si chiude con un compromesso accettabile: pur continuando la loro vita alternativa, i ragazzi della famiglia Cash, dopo il funerale della madre e alla fine del loro viaggio nella civiltà, cercano un’integrazione possibile, vanno a scuola, sono più residenziali e meno selvaggi, comunicano maggiormente con il mondo circostante.
Una soluzione è dunque possibile, sembra suggerirci il film. Nonostante la serietà degli argomenti trattati, infatti, il film mantiene fino alla fine una certa leggerezza, un tono avventuroso e a volte comico. Si tratterà dell’umorismo tante volte citato da Reich?
Pubblicato su Rivista di Psicoterapia Analitica Reichiana n. 2/2017