Numero 1/2019
è amore ciò che è nel tuo cervello?
Giuseppe Ciardiello*
Tutto ciò che esiste è il risultato di ciò
che abbiamo pensato.
(dal Sutta Pittaka)
La foto che accompagna questo articolo, rappresentante il battesimo di Cristo, è uno degli affreschi riprodotti nel Sacro Speco di San Benedetto, nel comune di Subiaco, in provincia di Roma.
Singolare è la mancata rappresentazione dei genitali che invece sono riprodotti in un altro affresco, dello stesso luogo, dove sono raffigurati i neonati della strage degli innocenti.
Evidentemente queste figure non vogliono essere la rappresentazione della realtà ma vogliono rappresentare un’idea, un pre-concetto; sono la proiezione, sulla realtà, di ciò che l’artista pensava e riteneva di voler comunicare. Per l’autore, il Cristo al battesimo doveva rappresentare la virtù dell’innocenza e del candore, qualcosa di lontano dalla sessualità e, evidentemente nella sua fantasia, la rappresentazione dei genitali umani adulti, rimandava automaticamente alla peccaminosità sessuale.
Questo modo di leggere e costruire la realtà è piuttosto comune ma, mentre nell’agito dell’interpretazione artistica è evidente l’uso che ne viene fatto, nelle relazioni comuni quel qualcosa di analogo passa inosservato.
Le interpretazioni della realtà fatte in base ai pregiudizi, formano anche gli oggetti delle relazioni tanto che, anche in ambito scientifico, si è soliti definire i rapporti con il termine di relazioni oggettuali.
In realtà non esistono relazioni oggettuali ma solo relazioni che a volte restano immature.
La definizione di oggettuale è usata solitamente quando è un osservatore esterno al rapporto a descrivere la relazione in corso. Ma anche in tal caso è ormai ufficialmente riconosciuto l’uso improprio di questa definizione quando si fa riferimento a due soggettività che, interagendo, co-costruiscono una relazione (Beebe & Lachmann, 2003; Carli e Rodini, 2008; Jurist, Slade et aa, 2010).
In tal caso viene spontaneo definire l’interazione semplicemente come relazione perché, definirla relazione oggettuale, significa assumere un punto di vista pregiudizievole; cioè, anziché guardare ad una relazione tra due persone, si osserva la relazione che una persona intrattiene con i propri oggetti interni proiettati. Significa, quindi, che della relazione si sta facendo una lettura intrapersonale. Inoltre viene il dubbio che, considerando l’altro della relazione sempre come luogo delle proiezioni del soggetto, questo pregiudizio possa nascondere un potenziale atteggiamento violento perché, proponendo di vedere nell’altro membro della relazione una costante proiezione dei propri oggetti interni, se ne nega la soggettività e se ne autorizza implicitamente un uso impersonale ed oggettuale.
Questo potrebbe essere un caratteristico aspetto dell’attuale atteggiamento sociale che indugia nell’esasperazione narcisistica. L’amore e il rispetto sono colorati dal modo in cui si pensa alle persone e alla loro identità e la considerazione che si ha di loro si riflette nel modo in cui se ne parla.
Si potrebbe essere indotti a pensare che si è aggressivi o amorevoli per un gioco chimico, e quindi istintivo, giustificando in tal modo quelle spinte che a volte si realizzano malgrado noi[i]. Ma un’autrice in particolare ci rammenta che l’aggressività umana non dipende dall’evenienza chimica, né dalla localizzazione fisica, anche se questi elementi sono indispensabili per la sua realizzazione. Nel suo testo dal titolo: Le dimensioni del movimento, e riprendendo un esperimento di Schachter e Singer (1962), Sabrina Cipolletta ci ricorda che, a parità di condizioni disturbanti, la somministrazione dello stesso farmaco determina l’emergere di un’emozione diversa in contesti diversi. E continua affermando: “…se fosse, infatti, il tipo di attivazione fisiologica a determinare lo stato emotivo, non si comprende come, alla modificazione prodotta dallo stesso farmaco in un caso corrisponda euforia e in un altro aggressività…” (pag. 37)
In altri termini non si è solo le parti del cervello ma il complesso del modo in cui queste parti interagiscono; perciò non è vero che le emozioni sono nell’amigdala o nel limbico o in qualsiasi altro luogo specifico del cervello, ma emergono dall’organismo complessivo, da quel tutto che non può essere ridotto alle parti che lo compongono neanche quando lo si consideri, appunto, nient’altro che parti e quindi corpo.
Messa in questi termini però la questione difficile da spiegare è il viraggio dall’aggressività alla violenza, dall’espressione naturale dell’adgredior (Navarro, 1988) all’altra espressione, quella della violenza, che rimane più facile ammettere come espressione di un difetto di fabbrica, e quindi d’organo, piuttosto che come conseguenza di abitudini apprese. La violenza e l’aggressività, come le altre espressioni emozionali, fanno parte del bagaglio comportamentale che si eredita come esseri umani e, proprio per questo, bisogna imparare a conviverci. In tutti gli animali le emozioni permettono di modulare il comportamento ma, mentre in genere sono attivabili automaticamente e sono in gran parte fuori dal controllo volontario, la natura sociale degli uomini si realizza proprio nella maggiore capacità della loro modulazione (Ruggieri, 1998, 1997; Persico, 2002). In certi casi, quindi, anche se è inevitabile vivere un impulso aggressivo o violento, la natura umana rende capaci di un grande controllo che consente di calibrare il comportamento più opportuno. Quando non ci si riesce e diventa difficile ammettere le difficoltà del controllo, si inventano giustificazioni che, per quanto riguarda le pene d’amore, si riducono alla gelosia. Ma è necessario ammettere che, in tutti i casi di comportamenti violenti, non è l’espressione esagerata della gelosia che può adeguatamente descriverli perché, ad un esame più accurato, i comportamenti violenti si rivelano indipendenti dal sentimento della gelosia che ha sempre fatto parte del naturale bagaglio competitivo (Pasini, 2013).
L’istanza della gelosia è una parte dell’amore, la cui tendenza specifica è la preservazione dell’oggetto. La gelosia, pur presente durante l’arco della vita, si rivela maggiormente in adolescenza e nella prima età adulta, quando si è pronti a riservare dentro di sé uno spazio per un’altra persona. La funzione di questo sentimento è protettiva ma, per motivi legati all’educazione e agli eventi di vita, l’impulso può raggiungere livelli disfunzionali per cui, piuttosto che preservare l’oggetto, tende a distruggerlo. È questa inversione di tendenza della gelosia ad essere inesplicabile; perché da elemento a corredo di un sentimento d’amore, improvvisamente si trasforma nel contrario? Che cosa è che lo determina? E, inoltre, questo cambiamento delle persone è veramente così improvviso?
Nella nostra società non sempre siamo attenti e oculati censori delle espressioni di aggressività e violenza. Anzi, talvolta siamo dediti ad una tranquilla accettazione dell’allentamento del controllo se non, addirittura, lo promuoviamo considerando l’impulsività e i comportamenti aggressivi come espressioni naturali. In realtà lo sono, ma solo nel modo in cui sono relazioni oggettuali tutte le relazioni. Bisognerebbe cioè riuscire a fare dei distinguo, anche a rischio di apparire pedanti, perché non tutte le espressioni naturali sono legittime nei rapporti sociali. Questi dovrebbero sempre accompagnarsi al rispetto che nasce dal considerare l’altro della relazione una persona e non un oggetto.
Alla luce di queste considerazioni è possibile ipotizzare che, ciò che rende possibile la trasformazione della gelosia in violenza, possa dipendere anche da un mancato ri/conoscimento di sé e dell’altro come due entità soggettive. È possibile che le persone capaci di violenza sono persone che non hanno mai appreso ad evolvere da una relazione oggettuale ad una relazione d’amore.
Forse perché non hanno avuto occasione di imparare a distinguere un biberon da un seno.
Come non si può combattere la guerra con la guerra, la violenza può essere combattuta solo usando strategie alternative al suo costituirsi e, siccome l’uso che si fa dei termini è strumentale al costituirsi della realtà, la violenza va combattuta nelle espressioni verbali utilizzate prima ancora che nelle persone; va combattuta nelle abitudini relazionali, nell’educazione che si dà e si riceve e nella tendenza naturale a focalizzare l’attenzione su se stessi svuotando gli altri della loro soggettività. La riduzione del seno alla tetta, e la sua consecutiva assimilazione al biberon, è un’interpretazione implicita nel concetto di relazione oggettuale che è sempre e solo un’interpretazione di adulti pregiudizialmente convinti. I bambini, fin da molto piccoli, sentono perfettamente che la relazione nutritiva del seno è diversa da quella del biberon (Spitz, 1958) e da questo punto di vista la diseducazione relazionale, che porta a considerare oggettuali tutte le relazioni, potrebbe dipendere proprio dal cattivo esempio di quegli adulti che si relazionano con i bambini come se fossero i loro oggetti interni.
Allora è da considerare la possibilità che la violenza non sia un evento improvviso o l’espressione di un deficit organico, ma che possa essere un tratto di personalità presente anche nel modo che le persone hanno di relazionarsi e di intendere la vita, nei piccoli gesti quotidiani e in quei tratti di personalità nei confronti dei quali si è poco attenti e che si tollerano anche quando non tengono conto delle esigenze altrui. Perciò è da ribadire con forza che la violenza non va cercata nelle forme del corpo o nelle dimensioni della testa o dei suoi organi ma nei processi dei rapporti quotidiani e nel modo di intendere le relazioni che si vivono giorno per giorno.
Una notizia di pochi giorni fa, che ormai non fa più nemmeno notizia, raccontava di una ricerca che ha investito il nostro paese, insieme alla Bulgaria, Inghilterra, Cipro e Norvegia, e che ha verificato che il 22% delle giovani (13–17 anni) in Inghilterra ha sofferto di violenza fisica: schiaffi, pugni, percosse. Frequentemente sorvegliate - sia nella vita online che in quella offline - le giovani vengono spesso costrette, con le minacce, a inviare ai loro partner foto intime che poi in molti casi vengono condivise in rete.
Un'abitudine diffusa, questa, tanto che l'Inghilterra presenta anche il tasso più alto di scambio di immagini di questo tipo: lo ha fatto il 32% dei ragazzi e il 44% delle ragazze intervistate. (Lamorgese, 2015)
È probabile che questi comportamenti non sono emersi all’improvviso e che è possibile che, prima ancora di essere agiti, facevano già parte dell’atteggiamento mentale di questi ragazzi; atteggiamento che però hanno acquisito da qualcuno. Allora bisogna ammettere che, quando si scopre la violenza anche nelle persone care, è possibile che questa violenza fosse già presente nel loro repertorio ma che non la si è voluta vedere. Si era distratti o forse poco esigenti o troppo tolleranti o troppo sorpresi, anche perché quando la violenza è subita nella quotidianità, per esempio nell’essere considerati oggetti, nell’essere ritenuti privi di diritti e senza tempi, spazi, ritmi ed esigenze personali, non è facile ammetterla nemmeno con sé stessi.
Quando si è oggetto di violenza si è increduli di fronte ad una realtà in cui si rivela che la persona amata ci considera un oggetto; e il più delle volte è proprio in nome dell’amore che avvengono le negazioni che si trasformano in collusioni. Ci si abitua ad essere considerati oggetti di relazione e a considerare, certi modi ed espressioni, solo eventi occasionali e si smette di accorgersi di quanto questi atteggiamenti di tolleranza, sopportazione e permissività impediscano alle stesse persone violente di capire quanto loro stessi necessitino di aiuto (Chindemi, Cardile, 2007).
La violenza sta nell’essere considerati oggetti, seppure oggetti d’amore!
[i] … se un neuroscienziato sostiene che il dolore che sente consiste in realtà in una serie di scariche delle fibre C del cervello, o che un’emozione è dovuta all’attività dell’amigdala, non sta spiegando il dolore o l’emozione. Sta solo cambiando argomento, parla d’altro, come se invece di parlare dell’esperienza dell’innamoramento elencasse i valori della presenza di ormoni sessuali in circolo. (Bertossa, Ferrari, 2005)
Bibliografia
- Beebe B & F., Lachmann, M. (2003), Infant research e trattamento degli adulti. Un modello sistemico-diadico delle interazioni. Milano: Raffaello Cortina Ed.
- Bertossa, F. e Ferrari, R. (2005), Lo sguardo senza occhio. Bologna: Albo Versorio.
- Carli, L. e Rodini, C. (2008), Le Forme di Intersoggettività. L’implicito e l’esplicito nelle relazioni interpersonali. Milano: Raffaello Cortina Ed.
- Chindemi D. e V., Cardile (02/2007), Violenza in famiglia e disturbi psichici. Giuffrè Ed.. (http://www.altalex.com/index.php?idnot=44217)
- Cipolletta, S. (2004), Le Dimensioni del Movimento. La costruzione interpersonale dell’azione. Milano: Guerini Reprint.
- Jurist, L., E et aa. (2010), Da mente a mente. Infant research, neuroscienze e psicoanalisi. Milano:Raffaello Cortina Ed.
- Lamorgese, S. (12/02/2015), Violenza e coercizione per le ragazze inglesi (http://www.rainews.it/dl/rainews/speciali/scienza-d3337878-2a0b-4451-afdb-91b543a23379.html)
- Navarro, F. (1988), La somatopsicodinamica. Pescara: Discobolo.
- Pasini, W (2013), Gelosia. L’altra faccia dell’amore. Milano: Oscar Mondadori.
- Persico, G. (2002), La ninna nanna. Dall’abbraccio materno alla psicofisiologia della relazione umana. Roma: Ed. Universitarie Romane.
- Ruggieri, V. (1988), Mente Corpo Malattia. Roma: Il Pensiero Scientifico Ed.
- Ruggieri, V. (1997), L’esperienza estetica. Roma: Armando Ed., 1997.
- Schachter S, Singer J., “Cognitive, social and psychological determinants of emozional state”, Psychological Review, 69, 1962.
- Spitz, R. (1958), Il primo anno di vita del bambino. (It. ed. Giunti e Barbera, Firenze, 1972)